Sembra Shakespeare, anche più di Shakespeare: però è l’intelligenza artificiale. Un paio d’anni fa, quando ci siamo accorti improvvisamente dell’IA generativa (che in realtà esisteva già da un pezzo), noi umani ci siamo inizialmente consolati pensando che, alle straordinarie capacità di calcolo di una macchina, mancherà sempre una delle nostre caratteristiche migliori: la creatività. Beh, ci sbagliavamo.

Il primo sospetto avrebbero dovuto suscitarlo le varie applicazioni capaci di creare, partendo da pochi input, canzoni del tutto plausibili. Ma se non sono bastate quelle, a farci capire la nostra clamorosa sottovalutazione, potrebbe riuscirci ora uno studio scientifico pubblicato di recente su Nature, e riassunto dalla rivista di divulgazione scientifica The Conversation. Lo hanno condotto Brian Porter e Edouard Machery, filosofi della scienza dell’Università di Pittsburgh, Pennsylvania. Il titolo della ricerca spiega già tutto: “La poesia generata dall’IA è indistinguibile dalla poesia scritta dall’uomo, ed è valutata più favorevolmente”. 

Dieci grandi poeti

Per condurre l’esperimento, i due ricercatori hanno selezionato 1.634 lettori, non digiuni di poesia ma neppure grandi esperti, e li hanno divisi in dieci gruppi, ciascuno collegato a un grande poeta di lingua inglese. I dieci autori, molto diversi per epoche e stili, erano Geoffrey Chaucer (vissuto tra il 1340 e il 1400), William Shakespeare (1564-1616), Samuel Butler (1613-1680), Lord Byron (1788-1824), Walt Whitman (1819-1892), Emily Dickinson (1830-1886), T. S. Eliot (1888-1965), Allen Ginsberg (1926-1997), Sylvia Plath (1932-1963) e Dorothea Lasky (1978), l’unica ancora vivente.

A ogni lettore sono state sottoposte dieci poesie: cinque scritte davvero dal rispettivo “autore umano” di riferimento, e altrettante generate invece dall’intelligenza artificiale (ChatGpt 3.5), cui era stato chiesto semplicemente di comporre alcune brevi poesie “nello stile” di ognuno dei dieci scrittori. Porter e Machery sottolineano che sono state utilizzate sempre le prime cinque risposte di ChatGpt, senza alcuna selezione o ricerca di quelle più somiglianti al modello da imitare. Le “cavie” dell’esperimento dovevano anzitutto indovinare quali poesie fossero frutto della creatività umana e quali no: a sorpresa, le opere scritte da personaggi realmente esistiti hanno ottenuto i punteggi più bassi in termini di valutazioni “umane”. In altre parole, le imitazioni create in pochi secondi dall’IA sono apparse più vere dei veri Shakespeare, Whitman e così via.

Un'immagine simbolo di ChatGpt, il più noto software di intelligenza artificiale generativa
Un'immagine simbolo di ChatGpt, il più noto software di intelligenza artificiale generativa
Un'immagine simbolo di ChatGpt, il più noto software di intelligenza artificiale generativa

Nella seconda parte dell’esperimento, limitata a 696 partecipanti, sono state selezionate solo dieci poesie, una per ciascuno scrittore: la metà vere, le altre formulate da ChatGpt “nello stile di”. I lettori sono stati divisi in tre gruppi: a uno è stato detto che tutte le dieci opere erano di origine umana, a uno che si trattava solo di creazioni artificiali, al terzo non è stato detto niente. A quel punto, Porter e Machery hanno chiesto ai lettori di esprimersi sulla qualità di ogni poesia, attribuendo un punteggio classificato in 14 differenti valutazioni: testo, ritmo, significato, emozione, profondità, originalità e altre ancora.

I giudizi di qualità

Sono emersi dei dati molto interessanti: anzitutto, “le valutazioni della qualità complessiva delle poesie – si legge nell’articolo su Nature – sono più basse quando ai partecipanti viene detto che la poesia è generata dall’intelligenza artificiale rispetto a quando viene detto che la poesia è scritta da un poeta umano”. Fin qui, tutto prevedibile: si tende sempre a preferire ciò che è ritenuto “naturale”, foss’anche erroneamente. Ma, cosa meno scontata, “le valutazioni della qualità complessiva – proseguono i due studiosi – sono più elevate per le poesie generate dall'IA rispetto alle poesie scritte da esseri umani”.

Quindi: se ai lettori viene detto che le poesie sono di ChatGpt, anche se non è vero, le valutazioni si abbassano significativamente; ma se sono davvero di ChatGpt, si alzano in maniera altrettanto significativa. Una possibile spiegazione, avanzata dalla ricerca, è che le opere dell’IA, pur imitando bene gli originali, siano in linea di massima più semplici, quindi più fruibili da un pubblico non espertissimo di poesia. Ma è solo un’ipotesi. Per ora, su questo tema, resta molto affascinante la risposta che il geniale cantautore e scrittore australiano Nick Cave ha dato a chi gli ha sottoposto delle canzoni scritte “nel suo stile” dall’IA: “Potranno anche apparire indistinguibili dall’originale”, ha detto Cave, “ma saranno sempre delle repliche. Le canzoni nascono dalla sofferenza, da uno struggimento interno che gli algoritmi non hanno. I dati non soffrono. ChatGpt non è stato da nessuna parte, non ha sopportato niente. Non ha un Io interiore. Il suo malinconico destino – ha concluso l’artista – è imitare, senza mai poter avere un’autentica esperienza umana”.

© Riproduzione riservata