C’è un altro cold case vecchio di 40 anni, oltre a quelli rimbalzati di recente all’attenzione delle cronache, su cui però non si vedranno mai trasmissioni di approfondimento, inviati speciali, plastici e quant’altro. Un giallo senza vittime – se non la stabilità dell’economia nazionale – ma non meno intricato di alcuni celebri fatti di sangue. Il 19 luglio del 1985 passò alla storia come il venerdì nero della lira: la moneta italica subì in poche ore una svalutazione colossale nei confronti del dollaro, la cui quotazione passò da poco più di 1.800 lire a 2.200. In quegli anni il governo e la Banca d’Italia decisero varie volte di procedere a svalutazioni controllate, ma quello fu un evento non calcolato e disastroso, che mise l’Italia quasi fuori dallo Sme, il Sistema monetario europeo che prevedeva oscillazioni contenute tra le valute dell’allora Comunità economica.

Operazione segreta

In realtà anche in quei giorni il ministro del Tesoro Giovanni Goria e il governatore di Bankitalia Carlo Azeglio Ciampi si stavano preparando a una svalutazione soft, programmata per il weekend e preceduta da intensi colloqui con la Germania per avere un sostanziale via libera. Senonché, a far saltare tutto in aria intervenne un ordine di acquisto di 125 milioni di dollari impartito dall’Eni e destinato a essere eseguito dall’Istituto San Paolo. Al fixing delle quotazioni delle valute, dopo le 13, quella fortissima domanda di dollari – in un momento in cui già la divisa statunitense si stava rafforzando – non trovò adeguate contropartite sul mercato, e fece impennare ulteriormente le quotazioni. Il dollaro arrivò appunto alla quota record di 2.200 lire (circa il 20% in più rispetto all’apertura delle contrattazioni), e quello è il prezzo a cui avvenne l’acquisto da parte dell’Eni, che dunque subì una perdita notevole rispetto a quanto preventivato.

Eppure, nel corso della mattinata la Banca d’Italia aveva più volte consigliato l’Eni di sospendere l’operazione. L’ente aveva bisogno di comprare dollari per rimborsare un prestito. Ma la scadenza per il rimborso era fissata al mercoledì successivo, per cui si sarebbe potuto rinviare l’acquisto al lunedì senza problemi. Perché allora si è proceduto a testa bassa verso il disastro?

È qui che si intrecciano le possibili soluzioni del cold case del venerdì nero, che nei mesi successivi determinò una forte scossa nel Governo italiano e costrinse il ministro Goria a condurre una vera e propria inchiesta sui fatti di quel giorno, per poi riferire a un inviperito Bettino Craxi, presidente del Consiglio. Il sospetto, che circolò da subito e non fu mai smentito del tutto, è che l’Eni (presieduto dal socialista Franco Reviglio) fosse già a conoscenza della possibile rivalutazione del dollaro rispetto alla lira nel weekend successivo, e quindi avesse deciso di accelerare l’acquisto per ragioni sostanzialmente speculativi.

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Piazza Affari, sede della Borsa di Milano

Poi si intromisero pure alcune circostanze sfortunate (o vieppiù misteriose?): l’ordine di acquistare venne dato dal direttore finanziario dell’Eni Mario Gabbrielli al caposervizio Vittorio Playa, che lo passò al funzionario Bixio Petracca per dare le relative disposizioni all’Istituto San Paolo. Nella tarda mattinata il capo del servizio Esteri di Bankitalia Fabrizio Saccomanni (che quasi 30 anni dopo diverrà ministro dell’Economia nel governo Letta) avvisò Petracca che Via Nazionale non avrebbe potuto servire l’operazione fuori mercato – cosa che avrebbe determinato un acquisto a circa 1.870 lire per dollaro, quotazione decisamente più accettabile – e sconsigliò di procedere. Ma nel frattempo Petracca non riusciva più a parlare con Playa, impegnato in una riunione a Montecarlo, il quale per altro già in precedenza aveva perso i contatti con Gabrielli. Alla fine, non potendo avere istruzioni differenti dai suoi superiori (il presidente Reviglio non venne informato durante l’operazione, ma questo non era insolito), Petracca confermò l’operazione. Il risultato fu che la lira crollò a picco e l’Eni subì una perdita consistente.

Lo scontro tra Eni e San Paolo

Il “giallo”, tra l’altro, oltre a un seguito politico ne ebbe anche uno giudiziario, perché l’Ente nazionale idrocarburi intentò una causa proprio contro l’Istituto San Paolo: che avrebbe dovuto – secondo l’Eni – interrompere l’acquisto dopo aver verificato che le quotazioni del dollaro stavano subendo un’impennata fuori dal normale. I giudici di merito inizialmente diedero parzialmente ragione all’Ente, aggiungendo però che l’irreperibilità dei suoi funzionari costituiva un concorso di colpa. La Cassazione invece accolse parzialmente il ricorso del San Paolo, affermando che proprio l’impossibilità di comunicare con i vertici Eni non poteva tramutarsi nell’obbligo della banca di agire diversamente dal mandato ricevuto.

Neppure i verdetti dei tribunali, però, hanno dissipato le nebbie sulla vicenda del venerdì nero della lira. Quel giorno la finanza italiana subì un duro colpo, che avrebbe potuto anche allontanare per molto tempo il Paese dal percorso che giunse infine alla moneta unica europea. Questo poi non si è verificato: non tutti direbbero che è stato un bene, ma almeno fu evitato il rischio di lasciare l’Italia alla deriva con la sua liretta debole, isolata e in balia degli eventi.

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