Dei vicepresidenti Usa in genere si sa poco, ma c'è una cosa che chiunque ha sentito almeno una volta: non salgono mai sullo stesso volo del presidente, per evitare che un eventuale incidente aereo decapiti totalmente la linea di comando dello Stato federale. Figura strana, quella del numero due americano, che trova pochi riscontri nelle altre Costituzioni: appena eletto non ha quasi alcun potere reale, ma dev'essere sempre pronto ad assumere quello massimo di guidare la prima superpotenza mondiale. Il suo destino è una gloria eventuale. "Nella sua saggezza - scrisse un giorno alla moglie il primo vicepresidente della storia, John Adams - il mio Paese ha pensato per me l'ufficio più insignificante che l'immaginazione umana abbia mai concepito".

Non sorprende quindi che nel primo secolo della storia degli Stati Uniti siano state discusse almeno sette proposte di abolizione della carica, tutte però respinte. Eppure fin dall'inizio quel ruolo è servito, varie volte, come trampolino di lancio verso la Casa Bianca. I primi due vice (Adams e Thomas Jefferson) sono poi stati eletti alla presidenza, e pochi anni dopo è capitata la stessa cosa a Martin Van Buren. Si è dovuto invece aspettare più di mezzo secolo per vedere applicato il meccanismo che costituisce l'essenza stessa della vicepresidenza, ossia la sostituzione di un presidente morto o costretto ad abbandonare l'incarico per impedimento permanente o dimissioni. Il primo "promosso sul campo" fu John Tyler, che nel 1841 subentrò al defunto William Henry Harrison.

In ogni caso, gradualmente i presidenti si sono accorti che era uno spreco tenere sostanzialmente inattiva una persona con un così elevato grado nell'amministrazione: e così, già nel corso del XIX secolo si sono visti alcuni "numeri due" assumere un ruolo più incisivo nella politica della Casa Bianca. Come Andrew Johnson (che subentrò ad Abraham Lincoln dopo il suo omicidio), Adlai Stevenson, Garret Hobart, e agli inizi del XX secolo Theodore Roosevelt. Ma alcune figure restavano confinate in un sostanziale anonimato: talvolta pure un po' deprimente, come nel caso di Calvin Coolidge, che pure divenne poi presidente nel 1923 alla morte di Warren G. Harding. Eppure nei due anni precedenti era così poco noto che la Lega di baseball gli mandò abbonamenti allo stadio col nome sbagliato, e quando la sua casa di Washington fu evacuata per un incendio, un vigile del fuoco non lo riconobbe.

Sono stati i decenni dell'ultimo Dopoguerra a dare più spazio ai vice. Anche per circostanze drammatiche: come nel caso di Lyndon Johnson, che nel 1963 prese il posto di John Fitzgerald Kennedy ucciso a Dallas e un anno dopo venne riconfermato presidente, trovandosi a gestire la guerra in Vietnam. E poi c'è il caso di Gerald Ford, che nel 1974 sostituì Richard Nixon, dimissionario per il caso Watergate: Ford conserva il curioso record di essere stato l'unico a diventare presidente senza essersi mai candidato neppure alla vicepresidenza. Nixon infatti era stato eletto in ticket con Spiro Agnew, costretto però anche lui alle dimissioni nel 1973 per delle accuse di corruzione ed evasione fiscale risalenti a quando era governatore del Maryland. Rimasto senza un vice, Nixon aveva scelto il leader dei Repubblicani alla Camera, cioè Ford, senza immaginare che meno di un anno dopo avrebbe dovuto cedergli lo Studio Ovale.

Dan Quayle (foto a uso libero del Dipartimento Difesa Usa tratta da Wikipedia)
Dan Quayle (foto a uso libero del Dipartimento Difesa Usa tratta da Wikipedia)
Dan Quayle (foto a uso libero del Dipartimento Difesa Usa tratta da Wikipedia)

Lo stesso Nixon era stato, negli anni Cinquanta, uno dei vicepresidenti che avevano ridefinito il ruolo, affiancando Dwight Eisenhower con grande efficacia e facendosi molto apprezzare. Il successivo "upgrade" della carica arriverà poi nel 1976 col ticket democratico Jimmy Carter-Walter Mondale: quest'ultimo ottenne da Carter il privilegio inedito di avere un ufficio alla Casa Bianca, nell'Ala Ovest, diventato da allora una tradizione. Ma probabilmente chi ha avuto più potere di tutti è stato Dick Cheney, vice di George W. Bush dal 2001 al 2009: complice la situazione creatasi dopo l'11 Settembre (e forse anche la personalità non troppo marcata di Bush), Cheney apparve spesso il vero responsabile delle decisioni sulle guerre in Afghanistan e Iraq. La sua figura debordante indusse alcuni costituzionalisti e politologi a riparlare di abolizione della vicepresidenza, ma stavolta per un eccesso di potere su una figura eletta solo indirettamente: di fatto il motivo opposto delle proposte di abolizione di un secolo prima. Anche Joe Biden comunque ebbe poi da Obama una sostanziale delega a occuparsi della delicatissima questione Iraq, mentre già ai tempi di Bill Clinton il suo amico Al Gore aveva molta autonomia su parte della politica estera e sulle tematiche ambientali.

Proprio la sconfitta di Al Gore nel 2000 contro Bush figlio testimonia che, nonostante l'inizio fortunato di Adams, Jefferson e poi Van Buren, fare il "secondo" non è stato molte volte il viatico per essere eletti alla Casa Bianca. A parte i tre già citati, il passaggio diretto da un ruolo all'altro è riuscito in seguito solo a George Bush padre nel 1988. Nixon e Biden sono invece stati eletti presidenti alcuni anni dopo la fine del loro mandato come vice. Più frequente (otto volte) l'ingresso nello Studio Ovale per la morte del presidente in carica. La staffetta Nixon-Ford resta l'unica causata da un atto di dimissioni. Theodore Roosevelt, Calvin Coolidge, Harry Truman e Lyndon Johnson sono i quattro che, dopo essere subentrati al posto di un presidente deceduto, sono stati eletti alla massima carica per il mandato successivo. Ma anche nell'epoca recente dei vicepresidenti assurti al rango di protagonisti, c'è chi ha rivestito il ruolo facendosi notare solo per i suoi evidenti limiti. Molti ricorderanno le gaffe di Dan Quayle, che affiancò Bush padre dal 1988 al 1992. Dato che i media lo sfottevano per il basso quoziente intellettivo e l'inesperienza, in un dibattito tra candidati alla vicepresidenza non trovò di meglio che paragonarsi a Kennedy, eletto alla Casa Bianca più o meno alla sua età: ma dopo esser stato un eroe di guerra e aver vinto un Premio Pulitzer. Quando il suo rivale nel dibattito gliele ricordò ("senatore, lei non è Kennedy"), Quayle assunse un'espressione da cane bastonato, che passò alla storia. A proposito di cani: quattro anni dopo promise di essere in campagna elettorale "il pitbull contro Bill Clinton". Quest'ultimo rispose, ridendo, che la cosa avrebbe potuto preoccupare solo gli alberi e gli idranti in giro per gli States. Quayle fu anche capace di criticare pubblicamente la giornalista Murphy Brown per aver avuto un figlio fuori dal matrimonio: peccato che si trattasse di un personaggio di una fiction, interpretato da Candice Bergen. Forse però la gaffe peggiore fu quando, visitando una scuola, si avventurò a correggere un dodicenne su come si scrivesse "potato" (patata). Aveva ragione lo scolaro. Il quadriennio da vicepresidente di Quayle ebbe termine nel gennaio del 1993, e la sua attività politica praticamente si concluse lì.

(2. Fine)
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