Continua la ricostruzione della lunga vicenda che per oltre 30 anni ha portato in carcere un innocente.

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Arrivati al 13 dicembre 2023 Beniamino Zuncheddu è libero da 18 giorni. La decisione di sospendere l’esecuzione della pena che il detenuto sconta in carcere da ormai 32 anni e mezzo presa dalla Corte d’appello di Roma ha sorpreso tutti. Alcune settimane prima il racconto reso in aula da Luigi Pinna, unico sopravvissuto della strage commessa sulle montagne di Sinnai (tre morti a Cuile is Coccus: il proprietario Gesuino Fadda, il figlio Giuseppe e il pastore Ignazio Pusceddu), una versione opposta a quella che nel 1991 aveva inchiodato l’imputato (all’epoca il superstite disse di averlo riconosciuto perché aveva agito a volto scoperto), secondo gli stessi giudici ha reso inattendibile il testimone; e così il collegio ha rimandato a casa Zuncheddu. Di fatto quasi una sentenza anticipata, attesa da imputato e famiglia da decenni.

Faccia a faccia

Ma il procedimento in realtà non è concluso, come spiegato dallo stesso presidente: «La decisione potrebbe cambiare». E un passaggio fondamentale, ormai uno degli ultimi, è in programma proprio quel 13 dicembre nella Capitale. Quando va in scena il confronto tra Pinna e Mario Uda, il poliziotto che fece le indagini indirizzando il ferito (così sospetta la Procura generale di Cagliari e, con lei, l’avvocato Mauro Trogu, difensore di Zuncheddu) a fare il nome del pastore di Burcei quale responsabile. In buona fede; ma contro le regole, cioè facendo vedere la foto del presunto colpevole al sopravvissuto prima che questi fosse sentito dal pm in via ufficiale. Così facendo, questa la tesi, il superstite fu condizionato dall’investigatore e rese una indicazione ritenuta «falsa» dalla pg Francesca Nanni, all’epoca in servizio a Cagliari.

Verità ammessa proprio da Pinna nell’udienza del 14 novembre precedente. «Mario mi ha fatto vedere la foto prima», aveva detto in aula davanti ai presenti attoniti. Facendo crollare tutte le certezze dei trent’anni precedenti. Ma il poliziotto subito dopo aveva negato, rimanendo fermo sulle proprie posizioni. «La foto? Mai fatta vedere». Dunque qual è la verità? Ecco il perché del confronto, un sistema tanto di moda negli anni Settanta e Ottanta.

La Corte d'appello di Roma davanti alla quale si celebra il processo di revisione
La Corte d'appello di Roma davanti alla quale si celebra il processo di revisione
La Corte d'appello di Roma davanti alla quale si celebra il processo di revisione

In aula

Così quel giorno di (quasi) metà dicembre i due prendono posto uno di fronte all’altro ma in tre ore di udienza non dialogano tra loro. Rispondono uno alla volta alle domande dei giudici, del procuratore generale, degli avvocati. E nessuno cambia versione. «Confermo», sottolineano entrambi riferendosi alle dichiarazioni rese un mese prima. Pinna allora disse: non ho visto il volto del killer, era coperto da una calza da donna, prima del riconoscimento Uda mi fece vedere la foto e indicò Zuncheddu come l’assassino; Uda a sua volta negò, mai aveva mostrato l’immagine del sospettato al superstite in tempi precedenti all’incontro ufficiale col pm («non potevo fare sciocchezze di questo genere»).

Il sopravvissuto però adesso ribadisce: «Come potevo riconoscere qualcuno che non ho visto? Sto dicendo la verità, mi dispiace». E parlando di Uda, il quale lo avrebbe addirittura informato della mancanza di un alibi in capo a Zuncheddu, spiega che l’investigatore «era convinto più di me perché è una persona rispettabile». Certo, ammette, tornando indietro rifarebbe lo stesso errore, cioè riconoscerebbe Zuncheddu sbagliando di nuovo.

Uda rintuzza, insiste, rimarca la bontà del suo operato. Sottolinea che trent’anni prima si indagava sul territorio sentendo la gente e ricorda il dubbio, condiviso da tutto l’ufficio investigativo, sulle modalità della strage: «Come poteva il killer correre e sparare al buio con una calza sul viso?» Poi mostra un foglietto col primo identikit dell’assassino e una didascalia: 25-35 anni, un metro e 80, robusto, capelli castani, viso rettangolare, inflessione dialettale sarda, abbigliamento sportivo, il volto coperto da una calzamaglia chiusa in testa a mo’ di carciofo.

Beniamino Zuncheddu e il suo avvocato Mauro Trogu in aula a Roma
Beniamino Zuncheddu e il suo avvocato Mauro Trogu in aula a Roma
Beniamino Zuncheddu e il suo avvocato Mauro Trogu in aula a Roma

Convinto

Ma il sopravvissuto dopo la retromarcia sulla “calza sì-calza no” stavolta sostiene di essere sicuro, anche quando in aula a Roma gli si fa notare che non ha mai parlato di buchi all’altezza degli occhi: «Erano coperti, la calza era chiara». Però quando l’avvocata di parte civile Alessandra Maria Del Rio gli chiede se sia tutt’ora convinto della colpevolezza di Beniamino Zuncheddu resta a lungo in silenzio. Tanto che interviene il presidente della Corte d’appello: «Vuole rispondere»? A quel punto Pinna si limita a un secco no. Il processo continua il 19 dicembre, ma per la sentenza bisognerà aspettare l’anno nuovo.

La lettera di Uda

Il giorno prima la Corte ha ricevuto una lettera da parte di Mario Uda. Una missiva nella quale l’ex investigatore dell’Interpol, protagonista delle indagini che portarono all’arresto (e poi alla condanna) di Zuncheddu, lamenta l’esistenza di una «sentenza extragiudiziale» emessa dal popolo, una condanna mediatica senza appello legata anche all’esistenza di una «campagna» della stessa natura orchestrata ai suoi danni. Eccola, sintetizzata per come fu pubblicata sull’Unione Sarda quel giorno (il contenuto è preciso).

«Campagna mediatica»

Uda parla di una «campagna mediatica» ai suoi danni, una «sentenza extragiudiziale» emessa dal popolo nei suoi confronti, giudizi «senza appello» che lo indicano «responsabile di azioni» tali da renderlo «spregevole». Una «condanna sommaria» condita da «segnali minacciosi» e «inequivocabili».

La lettera viene consegnata il 12 dicembre alla Corte. Il poliziotto esprime «profonda sofferenza e grande disagio» per il «clamore mediatico» della vicenda e sostiene che da almeno due anni legge «sui giornali» e ascolta sulle «emittenti nazionali e regionali» di essere stato «la causa della condanna all’ergastolo di una persona innocente», con «giudizi nei miei confronti senza appello che hanno portato l’opinione pubblica a considerarmi responsabile di azioni che hanno fatto di me un imputato e un essere spregevole».

«Tesi scartate»

L’ex investigatore lamenta anche di essere stato indicato sull’Unione Sarda, il 12 febbraio 2021, quale uomo vicino all’ex giudice istruttore Luigi Lombardini, magistrato dai metodi investigativi discussi e che si avvaleva di personaggi ambigui per svolgere indagini parallele. Tra i quali alcuni condannati per il sequestro di Gianni Murgia, avvenuto il 20 ottobre 1990 (strettamente legato alla strage, secondo la pg Francesca Nanni e l’avvocato Mauro Trogu). Articolo che, a suo dire, avrebbe fatto pensare all’opinione pubblica che lui fosse «sistematicamente aduso» a usare «metodi a dir poco disinvolti»; che, ipotesi «scartata nel precedente giudizio» (quello sfociato nella sentenza di condanna contro Zuncheddu), il rapimento dell’imprenditore di Dolianova e la strage di Sinnai fossero «collegati»; e che dunque fosse interessato «a coprire i veri responsabili in quanto confidenti miei e di Lombardini». Un ruolo, il suo, che definisce «sopravvalutato».

Una manifestazione per Beniamino Zuncheddu davanti alla cittadella giudiziaria di Roma
Una manifestazione per Beniamino Zuncheddu davanti alla cittadella giudiziaria di Roma
Una manifestazione per Beniamino Zuncheddu davanti alla cittadella giudiziaria di Roma

«Processo extragiudiziario»

Ma le nuove tesi sull’eccidio, ritenute «suggestive ma indimostrate», lo esporrebbero «al rischio di un processo ben diverso da quello mediatico e giudiziario», cioè quello «extragiudiziario tipico di codici non scritti delle nostre comunità che prevedono sentenze inappellabili». Del resto «i segnali minacciosi che ho percepito in questi ultimi giorni sono inequivocabili».

Certo «nella mia carriera al servizio dello Stato ho sempre eseguito gli ordini dei miei superiori e rispettato le regole». Tra l’altro l’ipotetica manipolazione del sopravvissuto «è stata oggetto di ampia e approfondita analisi nei giudizi precedenti» e, «se fosse stata» reale, nella «società agro pastorale sarda in questi anni ben diverse sarebbero state le conseguenze», perché «né io né il testimone avremmo avuto vita facile». Pinna perché «si sarebbe macchiato di una falsa testimonianza rimanendo alla mercé del vero o dei veri responsabili; io, a conoscenza della realtà, sarei risultato scomodo per gli autori del reato».

In ogni caso l’ex investigatore, pur essendo stata «già emessa la sentenza extragiudiziaria» a suo carico, ha «agito in buona fede». Resta la «campagna mediatica» che, «per sensibilizzare l’opinione pubblica su un possibile errore giudiziario», ha «strumentalmente individuato in me un altro colpevole sottoponendolo al giudizio della piazza e alla relativa condanna sommaria».

12) Continua

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