Francesca Deidda, ormai, non ha più bisogno di presentazioni. Sappiamo tutto di lei, purtroppo. Aveva 42 anni e sono state le sue colleghe del call center, con un messaggio-tranello, a far aprire l’indagine contro il marito Igor Sollai, un anno più grande, autotrasportatore, chiamato a rispondere di omicidio volontario aggravato e occultamento di cadavere. Certo, un’ipotesi di reato, non una sentenza, per quanto si tratti di un’accusa terribile, tanto da far scattare le manette, anche per il pericolo di fuga. Ma sui social il verdetto è deciso, senza tentennamenti: basta leggere ogni singolo commento. Sollai è il colpevole. Per tutti. Non c’è nessuno che la pensi diversamente.

Nel mondo difficile dei social, dove il diritto di parola e di pensiero è garantito quasi fuori da ogni regola, impressiona che la presunzione di innocenza non esista. Che non ci sia traccia di garantismo. Non uno che ricordi un principio fondamentale del nostro stato di diritto, ovvero l’accertamento della colpevolezza. A cui si arriva con una confessione o con indizi e prove su una determinata condotta. Paletti rigidi, a cui devono attenersi i tribunali, in quanto custodi della libertà e specularmente della detenzione dei cittadini. I social, invece, sono diventati carne viva. Reazione di pancia. Emozione. Senza filtri, troppo spesso senza raziocinio.

Allora viene da fare una prova pratica per tentare di capire come si costruiscono posizioni e convinzioni. L’esercizio consiste nel mettere insieme tutto quello che sappiamo sull’omicidio di Francesca e tutto quello che non ci torna. Che sembra strano. Che non quadra. Che lascia perplessi. Proviamo qui a ragionare sulle informazioni.

Francesca sparisce il 10 maggio. A “Chi l’ha visto”, qualche tempo dopo, il marito dice che la moglie «non è scomparsa, solo non risponde al telefono». Lui sostiene di averla accompagnata in un determinato posto, viva. Ma non dice quale, almeno in tv, «perché probabilmente sono coinvolte altre persone e per farle uscire allo scoperto è meglio stare in silenzio, mi hanno detto gli inquirenti». Siamo al 6 luglio. Due giorni dopo, Sollai viene arrestato.

Secondo elemento: dal 10 maggio nessuno ha più sentito la voce di Francesca. Le risposte – lei o chi per lei – le dà solo via WhatsApp, con messaggi. Anche il giorno in cui le colleghe della donna, insospettite dalle sue improvvise dimissioni, scrivono di un’altra dipendente andata via dal lavoro. Il tranello va a segno. Perché la risposta che arriva è «ah, sì, come mai?». Ma nome e circostanza sono inventati di sana pianta. Da lì la denuncia e l’avvio delle indagini.

Terzo elemento: Igor Sollai vende l’auto della moglie subito dopo la scomparsa. La macchina, una Toyota Yaris, la usava Francesca, ma era intestata al marito. Sul sedile posteriore i Ris hanno trovato tracce di sangue riconducibili alla donna. Sollai lo sapeva. Tanto che all’acquirente – diversamente non si spiega l’invito – raccomanda di «lavarla bene e igienizzarla».

Quarto elemento: Sollai, stavolta senza riuscirci, prova a disfarsi pure del divano di casa, dove i carabinieri del Reparto investigazioni scientifiche trovano ugualmente tracce biologiche di Francesca. Gli investigatori non hanno dubbi: Francesca è stata ammazzata lì, su quel divano, colpita con un colpo secco sul lato destro della fronte, ha accertato il medico legale durante l’autopsia.

Quinto elemento: Francesca, anzi i suoi resti, sono stati trovati il 18 luglio dentro un borsone, sotto un albero, a due metri dal bordo strada, lungo la vecchia Statale 125, non distante dal ponte romano. Le ricerche si erano concentrate nella zona perché a quella cella telefonica risultava agganciato per l’ultima volta lo smartphone di Francesca. Giorni prima, il recupero del bite dentale, di un beauty case e di un brandello di felpa. Poi l’arrivo dei cani molecolari e il corpo dentro il borsone, in posizione fetale.

Gli strani elementi sull’omicidio di Francesca potrebbero continuare. Ma per questo è al lavoro la Procura di Cagliari, attraverso il pm incaricato, Marco Cocco. A Sollai sui social viene rimproverata anche la freddezza. L’apparente serenità. La moglie non si trova e lui non piange. Non si dispera. Per il “tribunale della Rete” l'assassino è lui, anche se non confessa. Di certo Francesca dentro quel borsone non si è infilata da sola. Non è che si è data un colpo alla testa sul divano e poi è andata in macchina. O viceversa. Eppure per la legge il 43enne Sollai è un innocente. Questo è il cortocircuito (senza soluzione di continuità) tra vissuto, anche emotivo, e stato di diritto.

© Riproduzione riservata