È un genere musicale stagionale, come le canzonette balneari, ma ancor più raro: perché non torna di moda ogni estate, ma ogni quattro (salvo Covid). Per ascoltare gli inni nazionali, a parte qualche circostanza ufficiale, le Olimpiadi sono quasi l’unica occasione. E a furia di sentirli ripetere, almeno le musiche entrano in testa; ma cosa dicono i testi, quali valori esprimono i versi con cui ogni Nazione si presenta alle altre?

Perlopiù non sono pezzi memorabili, è il terreno di conquista della retorica; ma scoprirli è interessante, perché rivelano qualcosa dell’indole di un Paese, e spesso alcune curiosità. A Tokyo è risuonato per la prima volta sul podio dei 100 metri l’inno di Mameli, storicamente poco amato ma rivalutato negli ultimi anni. Anche all’estero: ai recenti Europei di calcio, prima ancora della vittoria finale, la nazionale tricolore aveva suscitato l’apprezzamento di alcuni commentatori stranieri per la grinta con cui gli azzurri intonavano – o stonavano – “Fratelli d’Italia” prima delle partite. L’inno, considerato una marcetta poco brillante (quale, oggettivamente, è), è diventato una scarica di energia per via dell’abitudine di declamarlo in crescendo, fino all’esplosione del “Sì!” finale.

Gli stili occidentali

Come combinazione testo-musica, va detto, ci sono in giro risultati migliori. Tanti ammirano la Marsigliese, anche per il suo ruolo nella storia della rivoluzione francese, ma pochi ricordano che la melodia sarebbe di un italiano: Giovambattista Viotti, che nel 1781 – undici anni prima di Rouget de Lisle cui l’inno è attribuito – ne aveva creato una su cui sembra ricalcata quella di “Allons enfants de la Patrie”.

Ma bisogna ammettere che, tra gli inni più noti, nessuno raggiunge l’efficacia quasi cinematografica (ante litteram, visto che il testo è del 1814) di quello degli Usa. La sensibilità europea sorride per la fissazione degli americani per la loro bandiera. Eppure “Star-spangled banner” sembra la sceneggiatura di un film di guerra, col vessillo che, dopo una notte di combattimenti, viene visto ancora là dov’era la notte prima, a testimoniare la resistenza dei patrioti: “Dimmi, riesci a vedere, tra le luci dell’alba, ciò che salutammo con orgoglio agli ultimi bagliori del giorno? Le cui larghe strisce e brillanti stelle, nella dura battaglia, sventolavano valorosamente?”, mentre le stesse esplosioni delle bombe “davano prova, nella notte, che il nostro stendardo era ancora là”. Un po’ deludenti invece le parole di “God save the Queen”, l’inno britannico per altro tra i più belli e solenni per la musica. Formulato come una preghiera, che ricorda i Salmi, varia poco rispetto al concetto del titolo: “Dio salvi la Regina”, cui si augura la felicità, la gloria e che non sia mai sconfitta dai nemici.

La bandiera a stelle e strisce (foto AP/Archivio US)
La bandiera a stelle e strisce (foto AP/Archivio US)
La bandiera a stelle e strisce (foto AP/Archivio US)

L’avversione al nemico caratterizza molti inni, per esempio la “Marcia dei volontari” cinese, ormai ricorrente nelle premiazioni olimpiche, che è proprio come uno immagina l'inno della Repubblica popolare: baldanzosa, un coro di voci orgogliose e squillanti, testo con richiami all’energia del popolo (“Alzatevi! Alzatevi, gente che non vuole essere schiava! Mille corpi con un cuore contro i cannoni nemici”). Ma con una rivisitazione della tradizione del Celeste Impero: “Con carne e sangue nostri, costruiamo la nostra nuova Grande Muraglia!”.

Le sanzioni per il doping di Stato hanno impedito di suonare a Tokyo l’inno della Russia (che ha partecipato solo come Comitato olimpico, con le vittorie celebrate dal concerto per pianoforte di Tchajkovsky): un vero peccato, perché per molti la musica di Aleksandr Aleksandrov è la più bella di tutte. Meno felici i vari testi che l’hanno accompagnata, tutti di Sergej Michalkov: sia i primi due, nell’era sovietica (nel 1977 dovette eliminare i riferimenti a Stalin, lasciando quello a Lenin), sia quello voluto da Putin per la Federazione russa. Michalkov (padre dei registi Nikita Michalkov e Andrej Konchalovsky) scrisse nelle due prime occasioni che “un’unione indivisibile di repubbliche libere la Grande Russia ha saldato per sempre. Viva l’unita e potente Unione Sovietica, sicuro baluardo dell’amicizia fra i popoli”. Nel 2000, invece, l’Urss non c’era più, e allora ha adattato i concettialla stessa musica: “Russia, il nostro paese sacro; Russia; la nostra terra amata. Sii gloriosa, nostra Patria libera, Unione eterna di popoli fratelli”. Ma insomma, a prescindere dai contenuti ideologici, nessuno dei tre componimenti raggiunge alte vette poetiche.

Forse i russi avrebbero potuto lasciare la musica senza parole come hanno fatto gli spagnoli, che uscendo dalla dittatura franchista hanno dismesso il testo precedente (“Viva Spagna, alzate la fronte, figli del popolo spagnolo. Gloria alla Patria che ha saputo seguire, sopra l’azzurro del mare, il camminare del Sole”) rinunciando a sceglierne un altro ufficiale. È privo di testo anche l’inno di San Marino, mai eseguito alle Olimpiadi perché la Repubblica del Titano non ha mai vinto un oro: in Giappone ci è andata vicina conquistando per la prima volta un argento e un bronzo. Giosuè Carducci aveva scritto dei versi, non indimenticabili (“Oh antica Repubblica, onore a te virtuosa. Generosa, fidente, virtuosa. Oh, Repubblica, onore e vivi eterna”), mai adottati ufficialmente.

I tedeschi non rinunciano a Haydn

Anche la Germania postbellica, come la Russia ex sovietica, ha conservato la musica dell’inno precedente (del resto stupenda, di Joseph Haydn) adattando il testo per rinnegare il nazismo. Quando fu composto, nel 1841, “Deutschland uber alles” – la Germania al di sopra di tutto – non alludeva al dominio tedesco come poi intese Hitler; auspicava l’unificazione dei tanti stati in cui era divisa la nazione, per porre appunto la Germania unita al di sopra delle piccole patrie. La Repubblica federale tedesca, nel 1952, eliminò le prime due strofe adottando solo la terza, assai meno ostile, confermata nel 1992 dalla Germania unificata: “Unità, giustizia e libertà per la patria tedesca! Aspiriamo orsù a questo fraternamente! Fiorisci nel fulgore di questa gioia, patria tedesca”.

Anche se non c’è più Usain Bolt a fare incetta di ori nelle corse veloci, l’inno giamaicano ha continuato ad accompagnare le vittorie dei suoi connazionali: “Jamaica, Land we love” (la terra che amiamo), scritto nel 1961, eseguito lento al pianoforte può sembrare una canzone di Elton John, con un testo rivolto al “Padre Eterno” che fa pensare al “Padre nostro” cattolico: “Guidaci con la tua mano potente, tienici liberi dai poteri malvagi. Sii la nostra luce, insegnaci il vero rispetto per tutti, stimola la risposta alla chiamata del dovere, rafforza noi deboli”.

Un'atleta sudcoreana ascolta l'inno nazionale (foto Epa)
Un'atleta sudcoreana ascolta l'inno nazionale (foto Epa)
Un'atleta sudcoreana ascolta l'inno nazionale (foto Epa)

Molti inni riflettono atmosfere marziali, altri si concentrano invece sulle qualità della Nazione, persino sulle caratteristiche geografiche. L’Hino nacional brasileiro, musicato da Francisco da Silva come il coro di un’opera lirica italiana, vede nella sconfinata estensione del Paese un presagio di grandezza: “Brasile, nel tuo bel cielo ridente e limpido risplende l'immagine della Croce del Sud. Gigante per tua stessa natura, sei bello, forte, impavido colosso e il tuo futuro riflette questa grandezza”. Di taglio “naturalistico”, ma con armonie molto diverse, anche alcuni inni orientali. Come quello giapponese, brevissimo e tra i più belli, una nenia dolce dedicata all’Imperatore: “Che il vostro regno possa durare mille, ottomila anni, finché i ciottoli divengano rocce coperte di muschio”. Non meno poetico quello della Corea del Sud, su una musica che sembra un antico canto di Chiesa: “Finché il Mare Orientale non si prosciugherà e il Monte Baekdu non si consumerà, Dio protegga il nostro paese. La nostra terra, con i suoi splendidi fiumi e montagne, sulla quale fioriscono gli ibischi. Come il pino sul monte Namsan si erge, immutato nel vento e nel freddo, così sia il nostro spirito flessibile”. E forse parlare dell’ibisco anziché dell’elmo di Scipio o di altri simboli bellici suona meno minaccioso e forte; ma oggi che arrivano dalla Corea i nostri televisori, frigoriferi, condizionatori, cellulari (anche qualche display di quelli Usa), a volte le nostre macchine, viene da pensare che la vera battaglia, quella commerciale, la stanno vincendo loro. Quelli degli ibischi e del pino sul monte Namsan.

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