Chi aveva l’età della ragione non potrà dimenticare mai: è una ferita aperta che non si rimargina, quella tragedia italiana rimbomba ancora sotto la spinta di un senso collettivo di impotenza e di colpa. Sono passati quarant’anni tondi, ma basta il nome – Alfredino – per far ancora accapponare la pelle. Il dramma di Vermicino, il martirio di un bimbo di appena sei anni che muore da solo in fondo a un budello è impresso nella storia della nostra Repubblica. In quei giorni, dall’10 al 13 giugno del 1981, va in scena il dolore di un Paese che conosce per la prima volta la tv verità, con un circo mediatico inaspettato e a tratti grottesco, dove improvvisazione e superficialità cancellano ogni pudore davanti a un bambino che precipita verso l’ultimo flebile respiro.

TRAGEDIA IN DIRETTA TELEVISIVA

La morte in diretta è un evento traumatico che sconvolge tutti: sessanta ore di telecamere puntate sulle campagne alla periferia di Frascati, gli occhi unificati dei tre canali Rai, con una media di ventun milioni di spettatori e punte di trenta nei momenti più drammatici. Le parole sussurrate dal bambino, i dialoghi con la madre, i lamenti sempre più tenui diventano merce televisiva che rivoluziona il modo di raccontare la cronaca conosciuto sino a quel momento nella tv di Stato. Il tam tam sulla tragedia del pozzo artesiano che inghiotte il piccolo Alfredo Rampi richiama peraltro nell’area di Vermicino una folla imponente, più di diecimila persone: il dolore collettivo diventa un tutt’uno con l’inquietante voglia di protagonismo sotto le telecamere che si soffermano su un evento così totalizzante.  

PERTINI A VERMICINO

Anche il presidente della Repubblica non si sottrae al cataclisma mediatico di quei giorni. Anzi, in qualche modo inconsapevolmente lo innesca: Sandro Pertini resta ai bordi del pozzo per sedici lunghissime ore, nonostante il peso dei suoi 85 anni. Le telecamere della Rai non possono che restare lì a raccontare un altro pezzo di dolore in diretta. Televisori accesi ovunque, l’Italia paralizzata nella speranza via via sempre più sottile di veder riaffiorare il volto del bambino già noto a tutti per quella foto diventata simbolo che lo ritrae sorridente in canottiera.

LA STORIA DI ALFREDINO

In quei giorni di giugno il piccolo Alfredo è in vacanza con la sua famiglia, nelle campagne tra Roma e Frascati, alle pendici dei colli a sud della Capitale. Nel tardo pomeriggio di mercoledì 10 il bambino fa una passeggiata col padre e due amici di famiglia: gioca e corre nei campi, ma all’improvviso si allontana e scompare nel nulla. E’ subito allarme, comincia una ricerca che coinvolge decine di persone mentre i minuti corrono veloci verso l’imbrunire. L’apprensione diventa terrore, verso le 21 vengono allertate le forze dell’ordine. La ricerca si fa imponente, si ispeziona anche un terreno vicino alla casa dei Rampi, dove sono in corso dei lavori per costruire un’abitazione. La nonna del bambino fa subito notare che c’è un pozzo, ma si esclude possa essere un luogo in cui cercare perché coperto da una pesante lamiera. Passano altri minuti e di Alfredino non c’è traccia nei terreni circostanti. Un agente di polizia decide di tornare davanti a quel pozzo, sposta la copertura di metallo e infila la testa nell’imboccatura del cunicolo. Sente i lamenti del bambino: Alfredino è lì dentro, 36 metri più giù, in quel budello che ha un diametro di appena ventotto centimetri. Sarà il proprietario del terreno a chiarire: <Ho messo io la lamiera al tramonto, prima il pozzo era aperto>. E’ l’inizio di un calvario che durerà 60 ore, uno stillicidio di dolore che coinvolgerà e sconvolgera tutta l’Italia.

Alfredino Rampi\u00A0(foto Ansa)
Alfredino Rampi\u00A0(foto Ansa)
Alfredino Rampi (foto Ansa)

Il lieto fine che non arriverà

È il Tg3 nato da pochi mesi a dare per primo la notizia nell’edizione notturna di mercoledì: la mattina dopo si accende l’attenzione sul dramma di Alfredino e della sua famiglia, così i vertici della Rai decidono di organizzare la diretta su quel fatto di cronaca che si consuma alle porte di Roma. Ad accendere le luci di uno spettacolo così nero in tutta Italia c’è l’errata convinzione che la storia abbia un lieto fine di lì a breve. La mobilitazione per i soccorsi è così massiccia da non dare spazio a interpretazioni negative: il bambino verrà salvato e sarà un grande evento mediatico. Previsione superficiale e fallimentare, anche perché nei passaggi chiave gli interventi di salvataggio si riveleranno improvvisati e disorganizzati.

Un film drammatico

Comincia il film di una storia angosciante con il susseguirsi di protagonisti, loro malgrado, come i vigili del fuoco, la polizia, i carabinieri, gli speleologi, i medici, le autorità, i tecnici che cercano di scavare un pozzo parallelo, i volontari. Attorno ci sono tanti curiosi, una folla immane che si accalca davanti al pozzo artesiano in cui si consuma l’agonia di Alfredino. Le telecamere indugiano tante, troppe volte sulla disperazione di una madre trasfigurata da un dolore immane. Si susseguono i fallimenti delle operazioni di soccorso: in quelle ore arrivano da tutta Italia persone pronte a calarsi nel pozzo. Il tempo passa e la speranza di salvare il bimbo di sei anni si affievolisce sempre di più, ma gli occhi della tv non smetteranno di mandare in onda le immagini devastanti di una storia che diventa non più raccontabile.

Angelo Licheri, l’eroe sardo

Giovedì si comincia a scavare un pozzo parallelo per raggiungere Alfredino ma la mossa non servirà a nulla. Anzi. Le vibrazioni delle trivelle probabilmente sono la causa del nuovo colpo di scena scioccante. Il bimbo scivola ancora più giù, passa da 36 a circa a 60 metri. Un colpo durissimo che gela le speranze. Ma venerdì notte, il 12 giugno, entra in scena Angelo Licheri, 37enne tipografo originario di Gavoi: si dice pronto a calarsi nel pozzo, contando sulla sua bassa statura e sulla sua magrezza, requisiti indispensabili per entrare nel cunicolo. “Fatemi scendere, voglio provare a salvarlo”. Alle 23.50 comincia l’operazione di discesa a testa in giù, Licheri resta nelle viscere della terra per 40 lunghissimi minuti, ben oltre la soglia di sicurezza (25 minuti) prevista dai medici. Tocca il bambino, è ancora vivo ma allo stremo delle forze. Ha smesso di parlare e lamentarsi. Prova più volte a tirarlo su con un gancio, si affida all’ultima mossa disperata: tenta di prenderlo per i polsi, uno si spezza. Licheri torna su stravolto e in lacrime, sa che si è spenta l’ultima speranza. Qualche ora dopo è la volta di un speleologo siciliano, Donato Caruso: è il punto di non ritorno, si accorge che Alfredino non dà più segni di vita.

L’epilogo peggiore: Italia sotto choc

L’inquietante reality show non si ferma neanche quando la madre del bambino fa un ultimo disperato tentativo di sentire la voce del figlio, urlando dentro il pozzo. Dalle viscere della terra arriva solo un silenzio glaciale che certifica la fine di tutto. Poco dopo una sonda confermerà che il cuore di Alfredino ha smesso di battere. La tv del dolore lascia tramortito un Paese intero, sorpreso dalla macchina mediatica che per la prima volta cancella ogni steccato tra cronaca e spettacolo, tra curiosità e disperazione. Seguiranno giorni e giorni di dibattiti sulla necessità o meno di mandare in onda quelle scene tanto strazianti da diventare negli anni successivi quasi un tabù, uno scrigno di dolore chiuso da non riaprire.

Dolore e polemiche

Quelle immagini attorno al pozzo restituiscono un’Italia ancora troppo disorganizzata per affrontare un evento di questa portata (la Protezione civile moderna prenderà forma un anno dopo): i soccorsi si sono rivelati inadeguati, si sono fatte scelte sbagliate negli oltre tre giorni di tentativi di salvataggio. Senza contare la follia dell’assenza di transenne e controlli: chiunque poteva avvicinarsi al pozzo e curiosare, fare proposte, dare suggerimenti, soprattutto intralciare. È l’ennesimo paradosso della tragedia di Vermicino, uno dei fatti più dolorosi del dopoguerra, di cui si è visto, scritto e detto di tutto. Ma alle fine resterà la storia semplice e agghiacciante di un bambino caduto in un cunicolo incustodito e di un’agonia durata quasi tre giorni. Una storia di morte dove la macchina televisiva supera i confini di ogni decenza, portando il dolore più sordo in tutte le case. Alfredino diventa il figlio perduto di tutti gli italiani, impotenti davanti al precipitare degli eventi raccontati dell’occhio freddo e cinico delle telecamere. È una ferita che non si rimargina neanche quarant’anni dopo.

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