È una vicenda integralmente e profondamente britannica, eppure a un lettore italiano potrebbe suonare familiare. Perché racconta di un grande partito progressista con un’anima moderata e una radicale che si detestano, e spesso rinunciano a fare quadrato davanti a un governo di destra-destra per combattersi aspramente fra loro e dividersi irreparabilmente, alternandosi alla guida di una formazione che quando trionfa lo fa nelle elezioni locali e ogni tanto nei sondaggi, ma da tempo non la spunta alle elezioni politiche.

Dopo di che, siccome appunto parliamo di Regno Unito e di Labour e non di casa nostra, il duello fra i dirigenti di ieri e quelli di oggi non finisce con una scissione ma (almeno per il momento) con un divieto di candidatura. È quello che il Nec, il national executive committee del partito laburista, ha inflitto all’ex leader Jeremy Corbyn: alle prossime elezioni non potrà presentarsi agli elettori di Islington North, il collegio elettorale londinese dove vince ininterrottamente dal 1983. L’espulsione verrà eventualmente dopo, cioè se e quando Corbyn, come ha lasciato intendere, dovesse candidarsi comunque e sotto le insegne di un proprio movimento.

In ogni caso già il divieto di candidatura è uno schiaffo solenne per il vecchio leader, soprattutto se si considerano due elementi. Il primo è che il Nec si era visto sottoporre la questione dell’incandidabilità di Corbyn dal suo successore alla guida del partito, il blairiano (o postblairiano) Keir Starmer, che ha preso la guida del progressismo britannico dopo le elezioni del 2019, che videro il Labour corbyniano perdere 60 seggi e incassare il peggior risultato elettorale dal 1935. Starmer – e questo è il secondo elemento – ha proposto al comitato di mettere in freezer il vecchio Jeremy in quanto una sua candidatura potrebbe “ridurre significativamente” le possibilità di vittoria del Labour.

Una formula ambigua, quasi neutra, che pure evoca un’ombra pesante, la stessa che nell’ottobre 2020 aveva portato a decretare per Corbyn la sospensione dal partito. L’accusa in sostanza è di antisemitismo. O meglio: di inerzia davanti a fenomeni di antisemitismo denunciati dentro il partito durante la sua segreteria. Come ai tempi spiegava sul Manifesto Leonardo Clausi, secondo l’organismo di controllo dei diritti civili, l’Equality and Human Rights Commission (Ehrc), durante sua leadership “i vertici del Labour hanno agito in modo illegalmente vessatorio e discriminatorio nei confronti delle denunce di comportamenti antisemiti ai danni di membri di religione ebraica”. Il rapporto, sintetizzava ancora Clausi nel 2020, “accusa la direzione di aver insabbiato le denunce di antisemitismo, di non aver addestrato il personale che doveva vagliare dette denunce, e di aver tollerato l’uso corrente di terminologia offensiva e antisemita. Stigmatizza poi una ventina di episodi in cui l’entourage di Corbyn si sarebbe macchiato di improprio coinvolgimento”.

Un’accusa pesante, sulla quale il Manifesto non nasconde il proprio scetticismo e che un’altra testata della sinistra italiana, “Left”, denuncia come “una bufala per fare fuori” il vecchio leader, ricostruendo “uno stillicidio continuo che ha intaccato l’immagine di Corbyn e del partito Laburista, trasformato da incessanti campagne mediatiche in un partito “istituzionalmente razzista”, che costringeva i propri parlamentari di religione ebraica a dimettersi per le minacce ricevute, che addirittura metteva in pericolo la sicurezza dei cittadini britannici di religione ebraica”. In effetti a far scattare la sospensione – e ora l’incandidabilità – è stata in particolare la reazione di Corbyn al rapporto dell’Ehrc. Quelle sue parole sulla “drammatica esagerazione” del fenomeno antisemita possono essere lette in due modi: possono significare che secondo Corbyn gli episodi sono stati letti ed enfatizzati in malafede per ingigantirli e minare la sua leadership, oppure che a Corbyn l’antisemitismo non sembra una cosa così grave. Quest’ultima è un’interpretazione abbastanza improbabile, viste le sue ripetute dichiarazioni contro l’antisemitismo e contro il razzismo, e tuttavia quel margine di potenziale ambiguità semantica è stato largo abbastanza perché Starmer ci facesse passare la sua indignata proposta di esclusione elettorale indirizzata all’Ehrc, che l’ha approvata con 22 sì e 12 no.

Quanto a Corbyn, ha parlato di un “vergognoso attacco alla democrazia del partito, ai suoi membri e alla giustizia” e ha avvertito: “Non mi lascerò ridurre al silenzio. Ho passato la mia vita a lottare per una società più giusta per conto degli elettori di Islington North e non ho intenzione di fermarmi ora”.

Vedremo alle elezioni del prossimo anno se davvero correrà da indipendente e se questo danneggerà il suo (ex) partito. È vero che il Labour nei sondaggi viaggia col vento in poppa, accreditato di un vantaggio sui Tory di 20 punti percentuali. Ma è vero anche che fino a un paio di mesi fa erano 30.

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