La spiaggia candida, sullo sfondo i profili inconfondibili della Sardegna. Davanti un mare pieno di tragiche inquietudini. Dodici donne vestite di nero stanno lì in una veglia funebre rivolta alle tragedie presenti del Mediterraneo ma piene di richiami alle tradizioni d’un tempo. Sono giovani e anziane, hanno volti freschi e mani rugose. Così appaiono nel video “The last lamentation”, opera di Valentina Medda, che dopo l’esposizione al Man di Nuoro (fino al 16 giugno) è destinata alle collezioni del MaMbo, il museo d’arte moderna di Bologna. Il lavoro, prodotto tra il 2023 e il 2024, è un rituale funebre per il Mediterraneo, osservato dall’artista come luogo di attesa, di sospensione e trapasso, anche di incarnazione di un’assenza e di deposito di corpi.

La sequenza di immagini è una riflessione contemporanea e un percorso di ricerca nel territorio: racconta la tragedia del mare attraverso un’ipnotica partitura coreografica, vocale e sonora. Il pensiero va ai migranti inghiottiti e dimenticati del presente, ma anche alla tradizione dei canti funebri, cioè gli “attittos”, che con la voce delle prefiche, interpreti del dolore dei familiari, accompagnava l’addio nella Barbagia del passato. Il pianto diventava una litania con elogi al defunto e con gesti di forte teatralità.

Valentina Medda evoca una pratica diffusa in tutta l’area del Mediterraneo, ovvero il pianto rituale indagato negli anni Cinquanta dall’antropologo Ernesto De Martino. Nel frattempo quel rito si è estinto in Sardegna e nel sud Italia, ma resta vivo sulle sponde opposte del Mediterraneo, nelle coste comprese tra il Libano e il Marocco.

L’artista cagliaritana, che vive a Bologna, ha studiato il materiale etnografico raccolto in Barbagia. Dal 2018 è impegnata in una ricerca sul Mediterraneo, che inizialmente l’ha portata a lavorare in Libano, alla Beirut Art Residency. Di questa esperienza ci sono tracce nei collage proposti nella mostra di Nuoro che è curata da Maria Paola Zedda. Emerge una tessitura che si annoda intorno a un territorio originario, la Sardegna, cioè la terra d’origine dell’artista, per riconnettersi poi con il Mediterraneo. Forte l’evocazione dei fazzoletti che accompagnano il rituale del pianto e sono ispirati dal documentario di Cecilia Mangini sulla tradizione pugliese. E poi ci sono un quaderno d’artista che raccoglie visivamente le scene in uno storyboard poetico, immagini del mare e alcune polaroid lavorate come se l’acqua divenisse pelle.

L’opera rielabora i codici rituali in forme contemporanee e astratte grazie alla collaborazione con il compositore Gaspare Sammartano, Claudia Ciceroni, compositrice e trainer vocalica, Attila Faravelli, che si occupa degli aspetti legati al field recording. Guidano la performance di professioniste e non, riprese all’aperto mentre rigenerano un rito radicato nella cultura del Mediterraneo.

La relazione tra corpo, pathos, paesaggio si stratifica per sistemi di assenza e presenza attraverso la partecipazione di un coro di 12 donne vestite di nero, in piedi accanto al mare, che per contrasto rende più tangibile il silenzio dei morti e fa esplodere le loro voci. Il video ruota attorno ai movimenti dolenti di quelle donne d’ogni età, mossi dal suono e dal pianto.

La mostra raccoglie inoltre un corpus di opere, molte esposte per la prima volta, che l’artista ha realizzato nelle prime fasi di studio e convergono intorno all’opera video ripercorrendone i momenti di elaborazione: collage, inchiostri su carta, fotografie, disegni e alcuni elementi scultorei.

Valentina Medda
Valentina Medda
Valentina Medda

«Il lavoro - spiega Valentina Medda - è concepito come un rituale funebre per il mare, una performance partecipativa ispirata alla tradizione delle lamentazioni funebri in cui un gruppo di donne vestite di nero dà vita a un grido condiviso, un rito che guarda al coro come all’unico linguaggio possibile per raccontare una tragedia contemporanea. Nel piangere per il Mediterraneo e i suoi morti - continua l’artista - il tentativo è quello di ridare voce e corpo attraverso un’azione poetica e politica, a quelle vite considerate sacrificabili, quelle che non meritano nemmeno il lutto, come afferma la filosofa Judith Butler. Il mare è qui estensione del corpo, che perde i suoi confini e si fa liquido, creatura acquea. La domanda su dove finisca il corpo e dove inizi lo spazio ha plasmato, di fatto, tutta la mia ricerca degli ultimi dieci anni, attraverso linguaggi diversi e in modi diversi, mettendo in discussione la distinzione tra la fisicità dell’individuo e la materialità esterna nel tentativo di creare una geografia incarnata e immaginare nuovi corpi ibridi, trovando il filo che lega tutte le materie vibranti, viventi e non».

Il progetto è realizzato grazie al sostegno di Italian Council, programma di promozione internazionale dell’arte italiana della Direzione generale Creatività contemporanea del ministero della Cultura. È presentato da Zeit (capofila), in partnership con Man di Nuoro, Teatro di Sardegna, Arts Centre 404 VierNulVier (Ghent, Belgio) e Flux Factory (New York) in collaborazione con la Fondazione Sardegna Film Commission e sostenuto da Ars - Arte Condivisa in Sardegna per la Fondazione di Sardegna.

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