Nella Comunità integrata per anziani di Isili sono morti sei vecchietti su ventuno. Colpa del Covid-19, il virus subdolo azzanna quando meno te lo aspetti. E che si è insinuato nei corridoi, nelle stanze, nei refettori della struttura gestita da una cooperativa sociale, "Il mio mondo", attaccando come in guerra soprattutto vittime innocenti. La storia della residenza per anziani del Sarcidano è rimbalzata nelle cronache dei quotidiani. Tra i contagiati, anche gli operatori: tra loro Antonello Pili (52 anni), il direttore della coop, che di Confcooperative è pure il leader regionale di Federsolidarietà, che si occupa - appunto - di sociale. Da circa due settimane ha superato il momento più cupo della malattia. In un recente post sui social, forse in un momento di scoramento, ha scritto: "Ciò che abbiamo vissuto nella comunità per anziani nel Comune di Isili è stata un'esperienza drammatica... tragica ... pian piano ne stiamo venendo fuori ... il ricordo è ai nostri anziani che non ci sono più ... sentirti impotente ... senza strumenti ... urlare ... scrivere ... chiedere aiuto ... da comunità a reparto Covid ospedaliero senza strumenti sanitari ... abbiamo e stiamo facendo l'impossibile".

Pili, lei come sta ora?

"Ora sto abbastanza bene. Sto superando anche la sintomalogia post Covid, cioè spossatezza, stanchezza e scarsa concentrazione. Piano piano sto riprendendo le forze e lo spirito giusto. Sono stato fortunato: ho iniziato subito la terapia Covid e questo mi ha aiutato parecchio".

Come hanno reagito gli anziani residenti all'attacco del virus?

"Erano dispiaciuti per le restrizioni e le limitazioni cui sono stati obbligati, ma allo stesso tempo si affidavano a noi. Con il virus è stata una guerra: tutti, su indicazione dei medici di famiglia e dell'Usca (l'Unità speciale di continuità assistenziale) sono stati sottoposti alle terapie del caso. Hanno combattuto con grande determinazione e hanno fatto la loro parte, anche se non tutti hanno sconfitto la malattia. Oggi c'è la ricerca della normalità: gli ospiti sono tornati a stare a tavola tutti insieme, sono potuti uscire in giardino, hanno ripreso le attività in condivisione. Il pensiero a chi non c'è più però è difficile da elaborare. Quel che certamente resta è il rapporto nuovo tra noi e loro, una relazione che è molto difficile descrivere".

Che cosa prova, ora che il momento più nero pare superato?

"Non lo so ancora. Non è facile svegliarsi dall'incubo vissuto, ti restano addosso l'angoscia e le mille domande che ti sei posto in quel momento e che non hanno ancora trovato risposte. Il senso di impotenza è stato fortissimo: sicuramente resta il vuoto delle "assenze", nitida la disperazione tua e degli operatori, l'angoscia dei familiari che prima sono stati separati e che poi, come è accaduto ad alcuni di loro, non hanno potuto riabbracciare i loro cari. Poi pensi a quanti, tra gli ospiti, hanno superato il contagio, a come oggi cercano di riappropriarsi delle proprie abitudini. Pensi agli operatori che hanno dato il massimo, rinchiudendosi dentro la struttura, facendo turni massacranti per far fronte all'emergenza, a come oggi stanno lavorando per poter riconquistare la fiducia dei nostri ospiti, riportandoli a una quotidianità che sembra ancora lontana. Pensi alle persone che "da fuori" ti hanno sostenuto e che ancora credono in te, ai tuoi familiari. Ai familiari degli ospiti che oggi ti ringraziano per quello che è stato fatto. Soltanto allora riprendi a respirare e a vedere la luce".

Gestire una struttura assistenziale per anziani in piena pandemia è davvero come stare al fronte?

"Sì, è proprio come stare al fronte. Non hai un solo nemico, quello che tutti chiamano virus. Ne hai anche altri, ma questo non emerge. Si parla solo di Covid e di morti per il Covid, mai di tutto quello che succede durante la battaglia. Hai davanti persone che hanno necessità, per via della loro patologia, non solo di cure sanitarie, ma di avere continuità nel quotidiano, punti di riferimento, visi conosciuti, ambienti e voci familiari, incontrare "gli altri" ospiti della struttura. Quando tu sei costretto a seguire un protocollo che non puoi e non devi violare, perché nella tua testa stai operando per il bene, e quindi gli ospiti devi tenerli nelle loro stanze e "obbligarli" all'isolamento, quando sei costretto a separare chi da sempre è stato compagno di stanza perché devi proteggerlo dal "positivo", e ancora, quando sei costretto a "bardarti" e non puoi più avere a disposizione il tempo per "il lavoro di cura" e per le relazioni, inneschi un sentimento di abbandono, e diventi tu, il nemico: fai paura. Ancora peggio, poi, se gli operatori storici si ammalano e devi sostituirli con altri, che non hanno il tempo in questa situazione di attivare e instaurare relazioni, ma devono entrare in guerra e combattere contro temperature che salgono, saturazioni che si abbassano all'improvviso, pasti che vengono rifiutati. L'impotenza, la voglia di urlare è ancora più forte, ma devi correre, cercare di trovare soluzioni che impediscano al virus di portarti via le persone che ti sono state affidate. Questo è stato il vero "fronte", oltre a quello che riguarda tutta la di battaglia combattuta prima e durante, cercando di spiegare che c'era e ci sarebbe stato bisogno di una "gestione" diversa della pandemia a livello regionale".

Avete avuto qualche supporto dal sistema sanitario pubblico?

"Sicuramente devo ringraziare il dottor Massimo Carboni, responsabile del distretto sanitario di Senorbì, per la sua grande professionalità, deontologia e umanità, la sua équipe e l'Usca territoriale, nonché alcuni medici di base. Il nodo centrale: manca il personale per un'assistenza adeguata, soprattutto sanitaria. Ti ritrovi da un giorno all'altro trasformato da struttura sociale a struttura sanitaria. Diventi reparto Covid ospedaliero senza strumenti sanitari e senza competenze professionali adeguate. Questo è il grosso limite la gestione sanitaria interna. Lo abbiamo segnalato, lo abbiamo urlato e chiesto un intervento più significativo dalle istituzioni competenti (Regione e Ats). Le persone nelle strutture vengono considerate soggetti da accudire a domicilio e quindi i servizi sono quelli territoriali (Usca), ma la realtà è un'altra. Le strutture con dentro il virus diventano reparti Covid ospedalieri senza strumenti e personale adeguato. Grande confusione è generata dal confondere le comunità alloggio per anziani (per anziani autosufficienti) e le comunità integrate (per anziani non autosufficienti) con le Rsa (Residenze sanitarie assistenziali). In Sardegna le Rsa sono strutture Sanitarie, a differenza di altre Regioni, con una organizzazione ospedaliera (medici, infermieri, oss, apparecchiature medicali specifiche). Le nostre strutture non hanno un'organizzazione strutturale, di personale e di strumenti come le Rsa. Un grande supporto lo abbiamo avuto dalla Protezione civile regionale, che ci ha messo a disposizione dei dispositivi di protezione individuale necessari per affrontare la situazione, e dall'Esercito, che ci ha offerto la consulenza necessaria per l'organizzazione della struttura nella suddivisione degli ambienti. Essendo, di fatto, reparto Covid ospedaliero, abbiamo richiesto un minimo di strumenti medicali all'Ats, senza nessuna risposta, quindi abbiamo dovuto acquistare noi ciò che serviva per affrontare l'emergenza".

Come giudica la gestione dell'emergenza a livello nazionale?

"C'è troppa confusione tra Governo centrale e Regioni. Bisogna continuare ad avere il coraggio di prendere decisioni drastiche. Ci sono vite umane da tutelare. Bisogna avere il coraggio di supportare tutte le categorie imprenditoriali in maniera seria e realistica, non con ristori che non supportano l'economia reale. Sembra la vecchia politica dell'assistenzialismo, non dello sviluppo. Oltre i proclami bisogna realmente potenziare la rete ospedaliera e la medicina territoriale e supportare tutte quelle realtà che si occupano di assistenza che suppliscono il sistema pubblico".

E in Sardegna?

"Già da tempo, sia come centrali cooperative che come sindacati, abbiamo detto e ribadito, sia all'assessorato alla Sanità che all'Ats, della necessità di una organizzazione e rafforzamento della medicina territoriale (Usca, assistenza domiciliare integrata, assistenza domiciliare per anziani), di attivare lo screening nelle strutture per anziani (come previsto dalla delibera della Giunta regionale del luglio 2020), cosa mai avvenuta. Se ci fosse stata una collaborazione più attiva, forse avremmo limitato i focolai nelle strutture per anziani. Altro limite, i posti letto per il Covid in ospedale. Ma se, come sarebbe necessario, si trasferissero tutti gli anziani positivi nei reparti Covid ospedalieri anziché lasciarli nelle strutture, i posti letto dichiarati sarebbero sufficienti? Più volte abbiamo denunciato lo "scippo" del personale sanitario (infermieri) dalle nostre strutture, per andare a lavorare nelle strutture ospedaliere, con la difficoltà di sostituirle e quindi l'impossibilità di garantire quelle prestazioni essenziali per la qualità del servizio a favore degli anziani".

Sei morti su 21 ospiti, un bilancio di guerra anche nella vostra piccola comunità. Quali riflessioni innescano questi numeri?

"Sicuramente le riflessioni che ti portano a chiederti se hai fatto tutto il possibile, a valutare che cosa non sia andato: le persone erano pluripatologiche, ma non erano destinate ad andare via così in fretta. Avrebbero avuto sicuramente diritto a un'assistenza sanitaria appropriata, la nostra infermiera si è contagiata e non è stato facile trovare altro personale infermieristico, per fortuna abbiamo trovato un'altra infermiera che è stata fondamentale per impostare e dare risposte all'emergenza. Le nostre risorse strumentali non erano e non sono adeguate, siamo una comunità non un reparto ospedaliero Covid, ma nessuno lo capisce. Il personale, benché abbia fatto veramente l'impossibile, si è trovato a gestire situazioni alquanto complesse, che necessitano di formazione adeguata. I numeri sono persone, i familiari dei nostri ospiti le altre vittime: hanno subito la scomparsa dei loro cari e non hanno potuto neanche salutarli per un'ultima volta, dignitosamente".

I telefoni muti o l'assenza di risposte da parte di chi dovrebbe darle quali conseguenze comportano?

"Più che i telefoni muti, manca la consapevolezza di che cosa vuol dire essere una comunità integrata per anziani e ritrovarsi in reparto Covid ospedaliero, all'improvviso ti chiedi cosa e come devi organizzare la struttura. Abbiamo avuto la fortuna di avere operatori grandi professionisti accompagnati da grande etica professionale. Abbiamo avuto la fortuna di poterci avvalere di chi ci ha insegnato le procedure di vestizione e svestizione, abbiamo avuto la fortuna di avere una direttrice di struttura che si è buttata nella mischia "bardandosi" per dare tutto il supporto necessario agli operatori e soprattutto agli ospiti e ai familiari che ringraziamo di cuore per la pazienza, fiducia e comprensione. Abbiamo avuto la fortuna di lavorare e collaborare con alcuni medici di famiglia per la continuità del confronto e supporto medico. Dobbiamo ringraziare la Protezione civile regionale per il continuo dialogo e confronto e per la messa a disposizione dei dispositivi di protezione individuale necessari. Avrebbero voluto fare di più, fornitura di ossigeno, materiali medicali, ma la competenza è dell'Ats che, a queste richieste, non ha mai risposto. O meglio, la risposta è stata: siete una struttura privata".

La struttura è stata riaperta?

"Gli ospiti sono stati dichiarati "guariti". L'apertura per noi significherà rivedere parenti che vengono ad abbracciare i propri cari, senza barriere. Per ora sono cadute solo le barriere interne, non esistono più i percorsi separati sporco-pulito, l'isolamento. Gli ospiti piano piano si stanno fidando di noi e soprattutto si stanno affidando, questo per noi è la cosa più importante, poi speriamo...".

L'aspetto umano viene sempre prima di tutto: qual è l'insegnamento che le ha regalato questo incubo?

"Sicuramente il valore per la vita, l'attaccamento alla famiglia, la solidarietà con i colleghi, la riscoperta dei valori della cooperazione, la vicinanza dei dirigenti di Confcooperative e Federsolidarietà. Sentire e condividere la solidarietà delle persone che hanno vissuto esperienze analoghe, in particolare i colleghi delle altre cooperative, il legame tra gli operatori al di là dai ruoli che si ricoprono. Tutti hanno svolto un ruolo, una funzione, tutti avevamo un unico obiettivo, cioè salvare vite umane. Uniti si vince. Durante l'isolamento per il Covid i pensieri si accavallano. Le paure sono tante, ma prevalgono la speranza e la volontà di farcela. Mi svegliavo la mattina con un solo pensiero: un altro giorno è passato, ce la devi fare per la tua famiglia e per tutto ciò per cui ti sei battuto".

E come - da operatore impegnato sul campo - si può trasformare in energia positiva nel sociale le ceneri della pandemia?

"Aver vissuto questa esperienza mi ha fatto capire davvero le cose che ti raccontano o senti in tv. Adesso che il virus sembra scomparire, non allentiamo la presa, basta poco. Non dobbiamo disperdere i sacrifici fatti è necessario che continuiamo nei comportamenti che sono indispensabili per evitare di diffondere il virus. In questo sto continuando a spendermi in ogni occasione. Sicuramente posso svolgere meglio il mio ruolo con più cognizione di causa. A chi lavora nelle istituzioni vorrei ricordare che il Palazzo non aiuta a capire cosa veramente succede nelle strade e nelle strutture: come si suol dire, la realtà è un'altra cosa".

Il suo messaggio ai negazionisti del virus, anche in vista della campagna di vaccinazione.

"Il virus esiste. Non è una semplice influenza, niente di più falso. Solo il vaccino salva la vita, se avessimo avuto prima il vaccino non ci sarebbero tutti questi morti. È fondamentale avere un piano vaccinale che stabilisca le priorità ed i tempi certi di vaccinazione a partire di chi è più fragile o più esposto. Solo così si vince la battaglia sul Covid. Non auguro a nessuno di vivere l'esperienza che abbiamo vissuto in questi mesi. Forse a qualche negazionista farebbe bene fare un'esperienza sul campo e vedere con i propri occhi che cosa il Covid provoca non solo fisicamente, ma nell'anima".
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