Spalle alla fotocamera, i capelli lunghi sciolti, le braccia in alto e il dito medio rivolto a all’immagine di Ebrahim Raisi, appesa alla parete. Loro sono le studentesse iraniane, quelle donne che Teheran vuol sottomesse, col velo, senza diritti né libertà. Lui è il presidente dello Stato teocratico morto il 19 maggio nell’elicottero caduto per guasto tecnico (almeno secondo la versione ufficiale). Lo scatto, postato su X, ha fatto il giro del mondo e spiega moltissimo sulla condizione femminile nella Repubblica islamica sciita.

Ma andiamo con ordine. Raisi è stato l’ottavo presidente iraniano, controverso e mal sopportato. Era in carica dal 3 agosto del 2021, dopo la vittoria alle elezioni nazionali meno partecipate dal 1979, quando la Rivoluzione del dittatore Khomeini fece crollare la monarchia di Reza Pahlavi. Passo breve dallo Scià alla Sharia. Raisi era un uomo di quel sistema. Di quell’integralismo religioso. Liberticida, ossessivo, violento, patriarcale e omofobo. Un Medioevo 2.0. Il 19 maggio  aveva inaugurato una diga al confine con l'Azerbaijan. Poi sarebbe dovuto andare a tagliare il nastro di una raffineria. Ma nella città di Tabriz, il presidente non è mai arrivato.

In uno Stato dove il dissenso non solo non è contemplato ma anche punito, quasi sempre con la morte, il dito medio di quel gruppetto di donne coraggiose non poteva che fare notizia. E scandalizzare gli ultraconservatori della legge islamica. Invece è il filo che porta dritti alle ragazze ammazzate da due anni a questa parte in Iran. Mattanze firmate da quella Polizia morale che terrorizza con la forza del potere per autoconservarsi. La figura di Raisi si inseriva in questo solco. Al presidente iraniano sono attribuite dalle 8mila alle 30mila esecuzioni a danno di oppositori politici. I “nemici” della Rivoluzione islamica. Ovvero, lo stesso metodo che ha portato alla morte di Mahsa Amini, nel 2022.

Era il 13 settembre. Mahsa, di origini kurde, era in vacanza a Teheran con la famiglia. Gli Amini si stavano recando in un ipermercato, quando la giovane, che di lì a pochi giorni avrebbe compiuto ventitré anni, è stata fermata dagli agenti che fanno parte della Forza disciplinare della Repubblica islamica. Vigilano sulla corretta applicazione del codice d'abbigliamento ritenuto idoneo dalla Sharia. E a farne le spese sono soprattutto le donne, che hanno l’obbligo di coprirsi il più possibile e usare lo hijab.

A Mahsa la polizia religiosa contestò la posizione definita non consona del velo, che lasciava troppo scoperto il volo. Quando la famiglia di Mahsa ebbe di nuovo sue notizie, la ragazza era su un letto di ospedale. Intubata, moribonda. Presumibilmente in seguito a un pestaggio. Aveva lividi sulle orecchie e sotto gli occhi. Fratture in tutto il corpo. Un edema cerebrale. Troppo per l’Iran stanco di tanto inutile integralismo. Partirono le proteste, che non si sono mai fermate. Ma la Repubblica islamica non sembra in pericolo, nemmeno adesso con la morte di Raisi.

Dopo Mahsa sono arrivate le altre mattanze. La Polizia morale a Teheran ha ammazzato anche Hadith Najafi, vent’anni, che i capelli li portava biondi in memoria di Mahsa e per la libertà di tutte le donne. Nelle proteste del 2022, le guardie del regime hanno massacrato anche Nika Shakarami, 16 anni, barbaramente violentata dagli agenti prima di essere picchiata a morte. La madre potè vederla all’obitorio, dieci giorni dopo la scomparsa: fu lì che capì cosa era accaduto alla figlia. Nelle stesse manifestazioni di quelle settimane, la brutalità della Repubblica islamica tolse il respiro, per sempre, anche a Sarina Esmailzadeh, altra sedicenne. Venne uccisa a Gohardasht, a una ventina di chilometri dalla capitale iraniana. 

Ma l’elenco non si ferma qui. C’è anche  Asra Panahi, ugualmente di 16 anni; c’è Armita Abbasi, di 21; c’è Aylar Həqqi, di 22. Su Internet si trova un link (https://t.ly/emkpk) che raccoglie le vittime del regime teocratico iraniano. Qualcuno è in carcere, ma la maggior parte di quelle donne – ma anche qualche uomo – ha pagato con la vita il valore della protesta. Del dissenso.

Alle nostre latitudini è difficile capire cosa significhi non potersi vestire liberamente o dover sopportare l’obbligo del velo, del silenzio, dell’oblio. Della violenza e della paura. Ecco perché i nomi di quelle ragazze dovremmo quantomeno ricordarli, se non impararli a memoria. Perché non esiste orrore più grande dell’autodeterminazione negata. Quello che piaceva a Raisi, invece. Quel che spiega il dito medio delle studentesse. Tutte in cerca di libertà. Un sogno all’apparenza piccolo, ma enorme per chi vive in Iran.

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