Continua la ricostruzione della lunga vicenda che per oltre 30 anni ha portato in carcere un innocente.

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Un passo dopo l’altro, a una velocità stavolta opportuna, le udienze del processo di revisione sulla strage di Sinnai si susseguono e si avvicinano alla data decisiva: quella al termine della quale la Corte d’appello di Roma pronuncerà la sentenza di conferma o annullamento della condanna all’ergastolo di Beniamino Zuncheddu, pastore di Burcei ritenuto colpevole del triplice omicidio di Gesuino Fadda, del figlio Giuseppe Fadda e del loro pastore Ignazio Pusceddu la sera dell’8 gennaio 1991 a Cuile is Coccus, montagne tra Sinnai e Burcei, 700 metri di altitudine a ridosso delle antenne di monte Serpeddì. Liti insanabili con gli allevatori confinanti di Masone Scusa per le invasioni del bestiame e le ritorsioni reciproche, la causa dell’eccidio cristallizzata da tre pronunciamenti giudiziari.

La novità precedente

Dopo il via di settembre, si arriva al 21 novembre: giorno in cui devono testimoniare tra le altre persone due pastori che hanno frequentato i luoghi dell’eccidio e, a parere di Procura generale di Roma, avvocato difensore (Mauro Trogu) e di parte civile (Alessandra Maria del Rio, Francesca Spanu e Rossana Palmas), possono aiutare a ricostruire la vicenda.

Ma le ipotesi spesso non collimano con la realtà. Tantomeno con quella del mondo agropastorale, chiuso e inquadrato in regole tutte sue. L’appuntamento comincia come sempre nel pomeriggio e va avanti sino a notte. Come quello precedente, quando hanno parlato il superstite Luigi Pinna (la cui testimonianza è stata clamorosa: ha ammesso di essere stato convinto dal poliziotto Mario Uda, che gli aveva anche fatto vedere una foto del sospettato, della responsabilità di Zuncheddu, mentre l’investigatore a sua volta lo stesso giorno ha negato con fermezza). Stavolta pubblico e stampa stanno all’esterno dell’aula: le due deposizioni principali si svolgono a porte chiuse su richiesta degli stessi protagonisti, Luigi Zuncheddu e Paolo Melis. Hanno paura: oggi come trent’anni prima.

I parenti accanto ai corpi senza vita delle vittime
I parenti accanto ai corpi senza vita delle vittime
I parenti accanto ai corpi senza vita delle vittime

Il racconto

Il primo resta seduto davanti alla Corte alcune ore ma la gran parte di quel che rivela è trascurabile tranne in alcuni passaggi, che potrebbero risultati importanti nel futuro. Emerge la possibilità che in passato qualcuno abbia fatto il nome di una persona che anni prima si era addossata la responsabilità della mattanza (e non solo). Tesi da approfondire e riscontrare, ma ancora oggi non è noto se sia stato fatto né tantomeno se quelle frasi siano state ritenute attendibili.

Subito dopo è la volta di Melis, che resta in aula sino alle 23 passate. La sua versione è ritenuta fondamentale: il pastore ha lavorato tra gli anni Ottanta e Novanta per i Fadda proprio nell’ovile degli omicidi e può ben inquadrare avvenimenti e date. Il problema, che Procura e avvocato vorrebbero risolvere in questa sede, è capire quale sia la vera ricostruzione delle tre date dall’uomo sulla minaccia rivolta forse (o forse no) pochi mesi prima dei delitti a Giuseppe Fadda, mentre questi sparava contro le vacche di altri allevatori, da qualcuno che la Corte d’assise nel 1991 individuò in Beniamino Zuncheddu: «Quel che fai alle vacche un giorno sarà fatto a te». Frase che anticipò la realtà e alla base, assieme ad altri due elementi, della sentenza di condanna all’ergastolo. Una versione fu resa ai carabinieri; le altre due, successive, al poliziotto Mario Uda della Criminalpol. Ma la deposizione di Roma non risolve il dilemma, anzi: lo complica. Perché viene fornito un quarto ricordo.

Davanti ai giudici, Melis spiega di aver lavorato dai Fadda per circa un anno e mezzo tra il 1989 e il 1990 andando via pochi mesi prima della strage. Il pastore è con tutta evidenza intimorito, risponde a monosillabi, a volte resta in silenzio. L’udienza si ferma, ricomincia dopo una breve pausa ma la situazione non cambia. Il testimone teme conseguenze. Riceve minacce, pare. Si procede a singhiozzo e il Procuratore generale deve intervenire una prima volta (lo farà più pesantemente il presidente della Corte ore dopo) spiegando all’uomo che, senza risposte adeguate e reali, rischia l’accusa di falsa testimonianza.

La zona di Cuile is Coccus teatro della strage sulle montagne tra Sinnai e Burcei
La zona di Cuile is Coccus teatro della strage sulle montagne tra Sinnai e Burcei
La zona di Cuile is Coccus teatro della strage sulle montagne tra Sinnai e Burcei

Le verità incerte

Le tre versioni differenti sono contenute nei verbali dell’epoca della strage e nelle carte con cui nel 2020 Procura generale di Cagliari e avvocato hanno chiesto la revisione. Il 9 gennaio 1991, giorno che segue il triplice omicidio, Melis sentito dai militari dell’Arma torna con la memoria all’estate del 1989 e ricorda che, ad agosto, da militare di leva, era a Sinnai in licenza e durante una festa paesana aveva incrociato Giuseppe Fadda il quale, a domanda su come stessero andando le cose, rispose spiegando di aver ricevuto alcune minacce in montagna da qualcuno che gli disse «quello che stai facendo alle mie vacche io lo farò a te». Un uomo del quale il ragazzo però non fece il nome.

Appena undici giorni dopo, il 20 gennaio, il suo ricordo cambia radicalmente. Melis al poliziotto Uda spiega di essere stato presente in realtà all’episodio e di aver visto un giovane sui 25 o 30 anni il quale, da una distanza di circa 50 o 100 metri, rimproverava Fadda che esplodeva fucilate contro le vacche: «Ricordati che quello che stai facendo alle mie vacche un giorno succederà a te». La frase è differente, è diversa la situazione. Quella persona, secondo quanto gli disse Fadda, frequentava l’ovile di Masone Scusa e poteva essere nipote di un uomo che conosceva.

Altri dodici giorni e arriva la terza versione. Allo stesso Uda il primo febbraio 1991 il pastore dice di aver «riflettuto» su quanto detto in precedenza ai carabinieri e ora vuole spiegare come davvero le cose stiano. Sostiene di aver agito per un «istinto di conservazione e auto tutela» vista «la grande paura» che non gli aveva «consentito di esporre quanto in mio dovere». Così, per quel timore, non aveva ammesso «di essere presente» all’episodio delle minacce.

Qual è la verità? In udienza a Roma il pastore ribadisce sia l’ultima. Aveva assistito in diretta a quanto accaduto tra Giuseppe Fadda e il misterioso rivale, avvenimento che fa risalire a un giorno del 1990; chi pronunciò le minacce a suo dire si trovava a circa 100 metri di distanza; fu proprio Fadda a dirgli che quel giovane era Beniamino Zuncheddu. Come del resto, sostiene adesso, aveva già avuto modo di rivelare anni fa proprio a Uda, che si era presentato da lui assieme a una figlia dei Fadda spacciandosi inizialmente come loro amico di famiglia. Non come poliziotto. Solo che di quella “soffiata” nei verbali non c’è traccia, gli fa presente il pg. Colpa evidentemente di chi all’epoca non aveva trascritto le sue parole, ribatte Melis.

La Corte d'appello di Roma
La Corte d'appello di Roma
La Corte d'appello di Roma

I verbali originari

Le discrepanze non finiscono qui. Il testimone nega altri passaggi contenuti nel verbale del 1991, dove risulta che il pm a capo delle indagini sui delitti gli mostrò quattro fotografie di possibili sospetti e che Melis indicò senza esitare quella che, a suo dire, ritraeva l’uomo che minacciò Fadda e che lui steso vide a bordo di un vespino rosso (l’immagine ritraeva Zuncheddu, proprietario di un vespino rosso). Rispondendo al pg romano invece ora sostiene di non aver mai parlato di un vespino rosso e ricorda che il giorno del colloquio col magistrato inquirente nel 1991, avvenuto in Procura a Cagliari, proprio Uda si era spostato per tornare subito dopo con la foto di Zuncheddu dicendogli che si trattava della stessa persona indicata da Fadda e facendogliela firmare. Melis davanti alla Corte sostiene però di non averlo riconosciuto, all’epoca.

Abbastanza da spingere un giudice in aula a parlare di una ipotetica individuazione fotografica finta e pilotata e, nel caso, di una evidente violazione di procedura davanti a un pm che, fosse vero il resoconto, sarebbe stato complice nel commettere un reato. Tesi ardita, secondo il magistrato, che infatti chiede a Melis di pensare bene a quel che sta dicendo; e Melis insiste, ribadendo di non aver visto quattro foto ma solo una, di aver saputo da Fadda che le minacce erano state pronunciate da Zuncheddu, di aver fatto il nome di Zuncheddu a Uda e infine di non aver letto il verbale da lui stesso firmato dopo l’incontro col pm.

Beniamino Zuncheddu e l'avvocato Mauro Trogu a Roma
Beniamino Zuncheddu e l'avvocato Mauro Trogu a Roma
Beniamino Zuncheddu e l'avvocato Mauro Trogu a Roma

A quel punto è l’avvocato Trogu e intervenire e a sottolineare che in precedenza mai Melis spiegò che fu Fadda a fargli il nome di Zuncheddu e, anzi, di aver sostenuto nel corso dell’incidente probatorio del 1991 di aver saputo quale fosse il nome solo dopo il riconoscimento fotografico. Giudice e pm chiedono a Melis di spiegare perché, avendolo già fatto a Uda, non aveva ribadito il nome di Zuncheddu al giudice. Ma il pastore non lo sa dire. E il presidente è costretto a ricordare le possibili conseguenze penali per chi non risponde.

Una manifestazione pro Zuncheddu a Roma
Una manifestazione pro Zuncheddu a Roma
Una manifestazione pro Zuncheddu a Roma

L’udienza è finita ma, prima del rinvio al 30 novembre, parla proprio Beniamino Zuncheddu: «In tanti anni di carcere, vorrei rientrare a casa. Sarebbe pure tempo», dice. Ancora non sa cosa sta per accadere.

10) Continua

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