Aveva l’arma nucleare, ottenuta dopo un lungo percorso di crescita tecnologica e militare, eppure ha deciso di disfarsene. Il Sudafrica è l’unico Paese al mondo che ha volontariamente rinunciato alle bombe atomiche: nei giorni in cui le tensioni con l’Iran rinfocolano la paura di un conflitto nucleare (già riaccesa dalla guerra in Ucraina), e di fronte alla difficoltà di far digerire a Teheran l’abbandono dei progetti bellicosi, pochi hanno ricordato che ci fu un caso in cui non servì la pressione della comunità internazionale per avviare il disarmo degli ordigni più distruttivi creati dall’uomo. Accadde oltre trent’anni fa, all’inizio degli anni Novanta, mentre il Sudafrica si apprestava a uscire dalla terribile stagione dell’apartheid. E a dire il vero, secondo alcune opinioni, ci fu un sottofondo razziale anche nelle motivazioni che portarono il governo di Pretoria a compiere quella forte rinuncia: i bianchi, che intuivano di dover presto cedere il potere alla popolazione nera, avrebbero voluto evitare di affidare armi così potenti in mani che non ritenevano affidabili. Ma al di là di queste ipotesi, resta il fatto che quello del Sudafrica fu un esempio che aiutò la distensione tra le Nazioni.

La svolta militare

Il programma nucleare del Sudafrica nacque negli anni ’60, ufficialmente a fini civili. Il Paese aveva abbondanti risorse di uranio e, grazie alla collaborazione con Stati Uniti e Francia nell’ambito del programma “Atoms for Peace”, sviluppò competenze tecnologiche avanzate nel campo dell’energia nucleare. Tuttavia, fu negli anni ’70 che il programma assunse una dimensione militare, favorita dal crescente isolamento internazionale del regime dell’apartheid e dal clima della Guerra Fredda.

Temendo una possibile invasione da parte dei Paesi confinanti, sostenuti dall’Unione Sovietica, e preoccupato per la crescente ostilità dell’opinione pubblica occidentale verso il suo regime razzista, il governo sudafricano intraprese la strada della deterrenza nucleare. Nel massimo segreto Pretoria costruì sei testate nucleari, e la settima era in fase di assemblaggio quando, alla fine degli anni ’80, il programma fu bruscamente interrotto.

Nel 1989, con l’arrivo al potere del presidente Frederik Willem de Klerk, cominciò un cambiamento profondo nella politica interna ed estera del Sudafrica. De Klerk avviò il processo di transizione che avrebbe portato alla fine dell’apartheid e alla nascita della nuova democrazia multirazziale, guidata da Nelson Mandela, liberato nel 1990. In questo contesto di trasformazione storica, la leadership sudafricana comprese che il possesso di armi nucleari non solo non offriva più alcun vantaggio strategico, ma rappresentava un ostacolo sul piano diplomatico e morale.

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Nelson Mandela e la moglie ricevuti da Papa Giovanni Paolo II nel giugno 1990, pochi mesi dopo la liberazione del leader dell'Anc

La fine della Guerra Fredda, il ritiro delle truppe cubane dall’Angola e la dissoluzione delle minacce regionali fecero venir meno le giustificazioni di sicurezza che avevano motivato la costruzione dell’arsenale. Ma c’è appunto chi invece dà di quella scelta una lettura meno benevola. Secondo Mawuna R. Koutonin, direttore del magazine Silicon Africa, “quella decisione storica era tutta una questione di razzismo. Nient’altro. Il regime dell'apartheid bianco non voleva che una nazione nera possedesse armi nucleari”. Anche secondo Frans Cronje, vicedirettore generale del South African Institute of Race Relations, “tutta la faccenda è stata mascherata da onorevole ritirata da un'Africa nucleare”, ma va anche detto che “uno Stato africano dotato di nucleare verrebbe preso più sul serio e avrebbe un ruolo di leadership più forte”. Quindi, “in termini di leadership, rinunciare alle armi nucleari ha l'effetto opposto: riduce la propria influenza negli affari esteri e nella politica internazionale”.

La riabilitazione internazionale

Alcuni analisti hanno ipotizzato un’altra motivazione opportunistica dietro il gran rifiuto nucleare: in quella fase storica Pretoria cercava un rientro nella comunità internazionale, un reintegro nei circuiti economici e politici da cui era stata esclusa a causa dell’apartheid. Rinunciare alla bomba atomica divenne così parte integrante di una strategia di riabilitazione globale.

Sta di fatto che, nel 1991, il Sudafrica aderì al Trattato di non proliferazione nucleare e accettò le ispezioni dell’Aiea (l’Agenzia internazionale per l’energia atomica). Nel marzo 1993, de Klerk annunciò pubblicamente, in un discorso storico, l’esistenza del programma militare segreto e il suo smantellamento completo, conclusosi due anni prima.

La rinuncia sudafricana ebbe un’enorme portata simbolica. Era la prima volta che uno Stato, volontariamente e senza pressioni esterne dirette, disarmava se stesso in ambito nucleare. La trasparenza con cui fu gestito il processo, la collaborazione con l’Aiea e la chiarezza politica del gesto fecero del Sudafrica un caso esemplare nel campo del disarmo. E anche la nuova leadership post-apartheid, con Nelson Mandela alla guida del Paese, consolidò questa scelta, promuovendo attivamente la non proliferazione a livello internazionale. Il Sudafrica divenne così un attore autorevole nella diplomazia nucleare globale, sostenendo ad esempio la creazione di una zona denuclearizzata in Africa e partecipando alle discussioni multilaterali sul disarmo. Anche se resta sempre difficile indagare le intime intenzioni dei governanti, non c’è dubbio che quelle mosse aiutarono de Klerk e l’intero Paese a recuperare considerazione da parte del resto del mondo, dopo gli anni in cui la vergogna della segregazione razziale aveva reso il Sudafrica uno dei simboli planetari del male.

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