Prologo necessario: nei giorni scorsi sull’Unione Sarda appare, con la stessa firma di questa intervista, un breve articolo che punzecchia il deputato di FdI Fabio Rampelli: propone sanzioni salate per chi usa parole straniere in atti della pubblica amministrazione ma lui stesso ne adopera un bel po’ nella sua attività parlamentare. Il giorno dopo arriva in redazione una lettera garbata ma ferma che spiega come i forestierismi in genere e gli anglicismi in particolare siano una vera piaga linguistica, tanto che in Francia ci sono provvedimenti di legge che li vietano alle pubbliche amministrazioni. Perciò sulla proposta Rampelli non è il caso di fare troppo sarcasmo.

La mail è del signor Daniel De Poli. Basta un’occhiata su Google per scoprire che si tratta di un implacabile cacciatore di anglicismi: ogni volta che ne trova uno, in un articolo o nella dichiarazione di un personaggio pubblico, manda una lettera all’esterofilo di turno per ricordargli la necessità di tutelare la lingua francese e di rispettare le regole in materia. Siccome fra i giornalisti che subiscono le sue civili ma puntuali correzioni alcuni ne danno conto ai lettori, e alcune testate come Le Figaro cominciano a considerarlo un attore della scena mediatica abbastanza significativo da meritare un ritratto, il signor De Poli acquista una certa notorietà. E quando allarga il suo raggio d’azione mandando una lettera di puntualizzazioni all’Unione Sarda a proposito della proposta di legge Rampelli, è naturale proporgli un’intervista. De Poli accetta, ma chiede sia per iscritto: il suo italiano è ottimo ma nel parlato non è fluentissimo, e poi in questo modo potrà corredare le risposte con link (o meglio: collegamenti ipertestuali) a sostegno delle sue affermazioni.

L’intervista per iscritto è sempre più ingessata rispetto a quella a voce, e i limiti diventano evidenti quando l’intervistato dice sull’Ue e sulla Nato cose che meriterebbero ulteriori quesiti e obiezioni che per iscritto diventano impercorribili. Ma un francese che difende le ragioni dell’italiano ha il diritto di dettare le regole d’ingaggio della conversazione. Quindi ecco il carteggio elettronico con il signor Daniel De Poli, 54enne con residenza a Strasburgo, radici in Italia (“I miei genitori sono nati a Bassano del Grappa ma vivono in Francia perché mio nonno paterno, che era un operaio, emigrò nel 1946 in Francia”) e una scrivania in un servizio finanziario del ministero dei Trasporti francese (“Quindi un lavoro che non ha niente a che fare con le lingue”)

Quando ha cominciato a correggere gli anglicismi dei giornalisti e quante mail ha mandato?

Ho cominciato da quando Internet è apparso, cioè trent’anni fa. E visto che mando più o meno 20 mail al giorno ai giornalisti o alle personalità che si esprimono nei media, questo fa un totale di decine di migliaia di mail.

Come reagiscono i destinatari delle sue correzioni?

Spesso molto bene. Soprattutto perché dico cose che la gente spesso non sa, come il fatto che l’inglese è vietato in molti campi in Francia. E anche perché i giornalisti in Francia hanno un dovere di “difendere ed illustrare la lingua francese”. In poche parole, questo significa “evitare gli anglicismi”. E tutti i servizi pubblici in Francia hanno anche il dovere legale di utilizzare nelle loro comunicazioni le parole francesi ufficiali. Perché se lo Stato francese non può imporre una terminologia al semplice cittadino, può imporla a se stesso.

Qual è il caso che ha trovato più fastidioso?

Nella mia lotta non c’è fastidio, caro Signore. Solo soddisfazione ed energia. Le indico due articoli che parlano della mia azione, uno recente e uno pubblicato nel 2016.

Non trova che sia illiberale limitare per legge la libertà di espressione?

Attenzione, prego. Perché, come ho già detto prima e come dice molto bene anche il signor Rampelli, non si tratta per niente di imporre una terminologia ai cittadini ma solo ai servizi pubblici. Il calcolo è il seguente: se i servizi pubblici usano le parole italiane (che sarebbe del tutto normale), anche i cittadini le useranno. L’urgenza in Italia è enorme, come mostra anche il libro pubblicato recentemente da Antonio Zoppetti, “Lo tsunami degli anglicismi”.

In Italia usiamo moltissime parole francesi, un po’ per abitudine e un po’ per darci un tono. Le dispiacerebbe se da noi diventasse illegale usare termini come “charme” e “croissant”, o espressioni come “c’est la vie” e “déjà-vu”?

Le parole francesi in italiano non hanno niente di paragonabile come numero con quelle inglesi. Ma, se volete il mio parere, le parole francesi e inglesi non hanno niente a che fare con la lingua italiana. Perché queste parole, quasi sempre, non sono fonetiche e non rispettano quasi mai le regole di pronuncia e di ortografia della lingua italiana. Io, quando parlavo italiano da adolescente, non usavo mai una parola francese. E una parola francese in italiano mi sembrava veramente un intrusa. Mi chiedevo: “Ma che ci fa in italiano questa parola della mia lingua, il francese?”. Ancora una volta: se si tratta di poche parole, come è il caso per le parole francesi, è accettabile. Ma quando si tratta di un tsunami come nel caso degli anglicismi, bisogna reagire perché il pericolo è evidente. Spero dunque di tutto cuore che la proposta di legge di Fabio Rampelli sarà adottata, e che ci sarà come in Francia una vera politica terminologica affinché le nuove realtà moderne, che non hanno niente di anglosassone, possano essere designate con parole italiane, come si fa in francese e in spagnolo, o in altre lingue come il cinese. Bisogna anche che poi venga creata un’associazione di difesa della lingua italiana con il compito di fare rispettare questa legge. 

Le parole dell’informatica, per fare un esempio obbligato, sono inglesi perché nascono nel mondo anglosassone. Non pensa che tradurre “file” e “browser”, anziché importarli direttamente, dia la stessa sensazione di rigidità delle encicliche papali, che convertono in latino termini tecnologici e postmoderni inconcepibili per gli antichi romani?

L’informatica e le nuove tecnologie non hanno niente di specificamente anglosassone, e non c’è quindi nessun motivo di designare queste nuove realtà con termini inglesi. Ed è appunto per questo che molte lingue traducono i termini inglesi. Per esempio il termine inglese computer è tradotto in varie lingue: ordinateur (francese), ordenador (spagnolo), diànnǎo (cinese), tietokone (finlandese), hamakargič (armeno) eccetera. Non c’è nessuna rigidità in questo processo ma solo la volontà di fare in modo che le nuove realtà moderne siano designate con parole che rispettano le regole di ortografia e di pronuncia delle lingue. In francese, per esempio, gli anglicismi hanno quasi tutti una traduzione, consultabile sul sito del grande dizionario terminologico. Gli anglicismi in italiano pongono anche un vero problema di scrittura. Come scriverà un bambino italiano di dieci anni la parola computer? La scriverà sicuramente compiuter. E avrà ragione! Perché la lingua italiana è fonetica. Più generalmente, gli anglicismi in italiano potrebbero molto bene essere rimpiazzati da parole italiane. Par esempio, un file non è che un archivio e un browser un navigatore (navigateur in francese).

Le lingue di cui lei difende la purezza non nascono all’improvviso, complete e immacolate: sono frutto di contaminazioni e incroci, di vicende politiche, militari e culturali. In italiano usiamo parole straniere come “lager” e “babysitter” ma anche (molto più spesso) sostantivi che consideriamo italianissimi ma sono di origine forestiera: i longobardi “zuffa” e “russare”, il francese “rubinetto”, l’antico germanico “sapone”, gli arabi “zero” e “sciroppo”. Insomma, noi spesso pensiamo di parlare italiano schietto, eppure “schietto” è una parola gotica. Non teme che il purismo paralizzi la naturale e necessaria evoluzione di una lingua?

Il problema è che l’epoca è completamente cambiata. Nei secoli passati i prestiti erano tutti italianizzati, e quindi non c’era nessun problema. Oggi invece i mezzi di comunicazione sono molto più potenti e, soprattutto, la falsa propaganda anglosassone apre un viale agli anglicismi in italiano. Qui non abbiamo prestiti puntuali ma una vera e propria invasione del lessico. Il problema fondamentale è il seguente: in Italia la lingua di prestigio non è più l’italiano bensì l’inglese. Ed è appunto per questo che l’invasione d’anglicismi non incontra nessuna resistenza. Ma perché l’inglese è diventato lingua di prestigio in Italia? Per il semplice motivo che gli anglosassoni diffondono affermazioni erronee come “l’inglese è la lingua del mondo”, affermazione assurda visto che più dell’80% della popolazione mondiale non parla inglese. O “l’inglese è la lingua delle scienze”, affermazione falsa visto che gli scienziati russi, cinesi o francesi lavorano nella loro lingua, e che la pubblicazione di articoli in inglese porta al saccheggio della ricerca di altri paesi da parte degli Stati Uniti d’America. Infine, altra affermazione falsa, “l’inglese è la lingua degli affari”, come se non fosse possibile fare affari in spagnolo in America del Sud o in francese nell’Africa francofona. È importante rendersi conto che gli anglosassoni dopo il 1945 capirono che non era più possibile conquistare territori con le armi, e quindi decisero di conquistare le menti, di trasformare i non anglofoni in colonizzati mentali affinché questi ultimi servissero i loro interessi, o almeno non vi si opponessero. È il famoso detto di Churchill: “La diffusione mondiale dell’inglese ci porta più della conquista di vasti territori”. O quella del British Council: “Il vero oro nero della Gran Bretagna è la sua lingua”. Quest’opera è molto ben descritta nel libro dell’accademico australiano Alastair Pennycook dal titolo “Una lingua universale o una lingua coloniale?”. Quindi l’Italia e tutti i gli altri paesi d’Europa sono i bersagli di questa propaganda anglosassone, falsa ma terribilmente efficace visto che quasi tutti credono a queste menzogne. Il risultato è che l’Unione Europea è adesso completamente vassallizzata agli Stati Uniti d’America. Pertanto, tutti i paesi dell’Unione desiderano continuare a essere nella NATO, vale a dire sotto il dominio degli Stati Uniti d’America. L’impotenza e la vassallizzazione geopolitica dell’Ue sono state nuovamente evidenziate magistralmente dalla vicenda del gasdotto Nord Stream 2, dove gli Stati Uniti d’America hanno osato minacciare la messa in servizio di questo gasdotto senza che l’UE facesse nulla per questa grave interferenza da parte di un paese extra-europeo. Nessuna minaccia di ritorsioni economiche, nessuna dichiarazione indignata. Niente. Ma come stupirsi quando alla vassallizzazione geopolitica si accoppia una forte vassallizzazione mentale alla lingua degli Stati Uniti d’America, tutti i commissari europei parlano in pubblico solo in questa lingua? Pertanto, la Commissione europea ora lavora solo nella lingua degli Stati Uniti d’America, come mostra il tweet del giornalista francese Jean Quatremer.

In conclusione su questo punto, l’Unione Europea non potrà mai competere con gli altri grandi blocchi del pianeta se continua ad essere vassallizzata geopoliticamente e linguisticamente agli Stati Uniti d’America.

La proposta Rampelli vuol vietare le parole straniere in nome di un’esigenza democratica: rendere comprensibili agli italiani gli atti amministrativi. Però gli italiani capiscono molto più certe parole inglesi che il lessico della nostra burocrazia. Anche in Francia il linguaggio amministrativo è oscuro come in Italia?

Capiamoci bene: in francese, una parola o un’espressione francese è quasi sempre più chiara di una parola inglese, per il semplice motivo che la stramaggioranza dei francesi non conosce l’inglese. Per esempio, l’espressione vérification des faits è ben più chiara di fact cheking, fausses nouvelles ben più chiara di fake news eccetera. La proposta di legge Rampelli è buona, e non fa che riprendere la legge Toubon, in vigore già da trent’anni in Francia. E non temete: se i servizi pubblici italiani useranno in futuro solo termini italiani, tutti i cittadini capiranno. Ne sono convinto. Usare parole straniere non serve certo a dare più chiarezza ai testi”.

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