Era un rito che veniva dalla cultura prenuragica. Una tradizione che apparteneva anche ad altri popoli, e se in Sardegna era s’argia, s’arza, vaglia o arja, nel Sud Italia si chiamava taranta. Latrodectus tredecimguttatus, questo il nome scientifico dell’argia, il ragno velenoso che dava il nome al rito magico di guarigione. Il ballo dell’argia era dunque l’unico rimedio salvavita dopo che il malcapitato veniva morso dal terribile aracnide e finiva preda di febbre altissima e forti dolori. Accadeva d’estate, nei giorni di gran caldo, solitamente durante i lavori in campagna, e non c’era altra terapia se non la danza sconcia di un numero sempre uguale di donne: sette vedove, sette spose e sette zitelle.

Un rito millenario che alla fine degli anni Cinquanta del secolo scorso stregò il giovane Giuseppe Ferrara, regista di film impegnati, che in Sardegna stava girando due documentari (Inchiesta su Perdasdefogu e Lo stagno). Nell’estate del 1958 era a Lula e, con grande meraviglia, vide le donne che ballavano intorno a un certo tziu Nanneddu, un settantenne che era stato punto dall’argia, da sa vaglia come veniva chiamato il ragno in paese. Le donne di casa, calme e silenziose, avevano adagiato il vecchio su una coperta, per terra, e mandarono a chiamare le comari più spiritose e allegre. Così, in ventuno – sette vergini, sette sposate e sette vedove – accennarono una danza che si fece sempre più convulsa e isterica. Saltavano sollevandosi le gonne, mettendo a nudo la carne e i genitali, ridendo e cantando a turno motteti osceni. La terapia si dimostrava efficace non appena il malato scoppiava a ridere, e il vecchio difatti rise e guarì.  

A Lula fu quello l’ultimo rito del ballo dell’argia, ma la sua magia era destinata a restare poiché Ferrara tornò tempo dopo, esattamente nel 1962, con una troupe di sei persone e Raffaello Marchi, intellettuale nuorese, come consulente. Girò il cortometraggio intitolato “Il ballo delle vedove”, preziosissimo documento etnografico che si aggiunge agli studi fatti sul campo da Clara Gallini, allieva di Ernesto De Martino.

Giuseppe Ferrara, consigliato da Marchi, aveva selezionato il cast e scelto il luogo. Così, nel giorno in cui si doveva girare, le ventuno attrici di Lula furono accompagnate in corriera a Litiani, vicino alla chiesa di San Francesco. Avevano sfidato le critiche del paese, convinte soprattutto dalla paga profumata: duemila lire per ballare intorno a un finto malato. 

Ci fu un colpo di scena, durante quelle riprese a Litiani. Una donna, presa dal ritmo vorticoso della danza, portò fuori un seno e lo offrì al malato. La scena fu cancellata dalla censura (venne inserita poi in un film di Pasquale Prunas “Italiani come noi”, del 1964), ma turbò non poco le altre danzatrici e in paese scoppiò uno scandalo. Quello, si disse, era un gesto che poteva essere ammesso solo per un malato vero, non per una finzione.

La danza dell’argia tornò sotto le luci del cinema italiano qualche anno dopo. Nella zona di Orosei era stato allestito il set di “Questione d’onore”, film del 1965 di Luigi Zampa, una volutamente grottesca storia sarda di corna, sangue e coltelli, con Ugo Tognazzi e Nicoletta Machiavelli. Le donne di Lula furono scritturate con il molto convincente argomento di ottomila lire di paga giornaliera. Le riprese iniziarono, e mentre quelle ballavano in cerchio intorno al malato, e cantavano e ridevano, Zampa le lasciava fare, finché gridò lo stop e, rivolto alle signore, fece la domanda: «Chi di voi è disposta a portare fuori un seno?». Silenzio e imbarazzo. «Il compenso è di 1800 lire», avvisò il regista. Qualcuna fu tentata, altre dissero che nemmeno per un milione. Si fece avanti la donna che l’aveva già fatto a Litiani, nel film di Ferrara. E così il seno nudo della signora di Lula è finito dentro la storia del cinema italiano. 

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