Finisce quota 100, si porta l'asticella verso i 67 anni strutturali della "vecchiaia" e si cerca una strada sicura per le pensioni anni Venti che fanno i conti con la grande crisi dell'era Covid. La previdenza italiana si prepara a vivere un nuovo capitolo sempre più lontano dagli albori di fine Ottocento ma anche dall'età dell'oro del Boom economico e dalla follia delle baby-pensioni, quando le casse pubbliche potevano essere depredate senza alcun pensiero per le generazioni future. Da trent'anni a questa parte si cercano correttivi per far fronte a un sistema lavoro che non riesce più a sostenere il carico previdenziale arrivato dal passato, mentre l'aspettativa di vita degli italiani si è spinta ormai molto più in là di ogni previsione.

C'ERANO UNA VOLTA LE CERTEZZE Nella prima fase il sistema pensionistico era "a capitalizzazione": i lavoratori versavano una parte del loro stipendio in un fondo pensione, con accantonamenti e investimenti che poi servivano ad assicurare assegni "a riposo" in linea con quanto versato durante la vita lavorativa. Nel 1969 è arrivata la prima riforma strutturale con l'introduzione di un sistema "a ripartizione". Meccanismo in cui i contribuenti pagano le pensioni erogate a chi ha già smesso di lavorare, scommettendo sul successivo passaggio di consegne tra generazioni: un giorno i futuri lavoratori pagheranno la loro.

SISTEMA CONTRIBUTIVO La legge Brodolini ha istituto la pensione di anzianità per i cittadini con 35 anni di contribuzione, anche se non avevano raggiunto l'età pensionabile. Era previsto il rassicurante schema retributivo, col calcolo della pensione sulla base degli stipendi degli ultimi 5 anni di lavoro, cioè i più alti: in questo modo l'assegno percepito era più pesante rispetto ai contributi realmente versati durante la vita lavorativa. In campo anche la perequazione automatica delle pensioni, cioè la rivalutazione degli assegni sulla base dell'indice dei prezzi al consumo.

LA COPERTURA DELLO STATO Il sistema pensionistico concepito nel 1969 prevedeva squilibri di bilancio quasi strutturali, coperti sistematicamente dallo Stato, rispetto a quello a capitalizzazione. Il nuovo modello era figlio della prima stagione del benessere associato alla possibilità di ricorrere al debito pubblico. Il passo successivo è stato fatto nel 1973, quando il governo Rumor ha varato le baby pensioni: le donne sposate con figli potevano smettere di lavorare dopo 14 anni, 6 mesi e 1 giorno di contributi, gli statali dopo 20 anni e i dipendenti di aziende private dopo 25. Un colpo di teatro da campagna elettorale che si è trasformato in un macigno per le casse dello Stato. Debito colossale proiettato nel tempo: nel 2018 la spesa per questo tipo di pensioni era ancora di 7,5 miliardi di euro all'anno, per assicurare l'assegno previdenziale a 400mila italiani.

LA RIFORMA AMATO La stagione delle vacche grasse è riuscita ad andare avanti sino all'inizio degli anni Novanta, sebbene le crepe di un sistema troppo assistenziale fossero emerse almeno un decennio prima. Il cambio di scena è arrivato pressoché in coincidenza con la fine di quella che è stata definita Prima Repubblica, a trazione democristiana (soprattutto) e socialista. Con la riforma Amato del 1992 è iniziato il tempo dei tagli e della contrazione della spesa, con l'introduzione di requisiti ben più stringenti per l'accesso alla pensione. Per garantire un sistema sostenibile, il governo ha imposto un aumento graduale dell'età pensionabile da 55 a 60 anni per le donne e da 60 a 65 per gli uomini, portando la contribuzione minima da 15 a 20 anni. Per la prima volta è comparso il divieto parziale di cumulo tra pensione e redditi da lavoro autonomo.

LA RIVOLUZIONE DEL 1995 La riforma Dini ha dato bella sforbiciata agli assegni delle pensioni, mandando in soffitta il sistema retributivo e aprendo le porte a quello contributivo (l'assegno si calcola sulla base di quando versato durante la carriera lavorativa) per quanti abbiano iniziato a lavorare dal primo gennaio 1996. È stata introdotta la soglia minima dell'età anagrafica da abbinare ai 35 anni di contribuzione per l'acceso alla pensione di anzianità. Sono stati tagliati gli importi delle pensioni di invalidità e quelle di reversibilità sulla base dei reali redditi dichiarati. L'abbassamento dell'assegno col sistema contributivo è evidente: l'importo della pensione annua si calcola moltiplicando la quota contributiva per il cosiddetto coefficiente di trasformazione legato all'età del lavoratore (alla data dell'entrata in pensione). I coefficienti di trasformazione sono strettamente legati alla aspettativa di vita: automatica quindi la revisione periodica.

LA CORSA VERSO L'EURO Le tappe di avvicinamento all'euro, la moneta comunitaria del futuro, hanno spinto l'Italia - a partire dal 1997 - a rispettare le linee guida dell'Ue, garantendo il taglio dei costi della spesa statale. Il governo ha così irrigidito i requisiti di accesso alla pensione di anzianità per i lavoratori autonomi. Ha poi parificato i pensionamenti anticipati della Pubblica Amministrazione agli assegni di anzianità erogati dall'Inps. È arrivato anche lo stop alla rivalutazione delle pensioni superiori a 5 volte minimo.

RIFORMA BERLUSCONI Nel 2001 governo ha ritoccato le pensioni minime e le pensioni sociali, portando l'importo minimo a un milione di lire al mese. Nel 2003 è arrivata la possibilità di cumulo totale tra pensione di anzianità, liquidata a 58 anni con 37 anni di contributi, con i redditi di lavoro autonomo e dipendente. I lavoratori assimilabili ai subordinati sono stati parificati agli autonomi. Per la prima volta è apparso il contributo di solidarietà - pari al 3% - sugli assegni superiori a 25 volte il minimo.

ARRIVA LO SCALONE Nel 2004 ecco lo "scalone" con l'inasprimento dei requisiti per la pensione di anzianità e l'aumento dell'età anagrafica - a partire dal primo gennaio 2008 - da 58 a 60 anni. Per le donne è rimasta la possibilità di accedere alla pensione di anzianità a 57 anni di età e 35 anni di contribuzione, a patto di accettare il calcolo integrale del sistema contributivo. Sono spuntati anche gli incentivi ai lavoratori per restare in attività e ed è arrivato anche il super bonus del 32,7% per chi ha rinviato la pensione di anzianità.

SCOMPARE LO SCALONE Lo scalone è scomparso dopo appena tre anni: al suo posto ha presto forma il "sistema delle quote" determinate - dal primo gennaio 2009 - dalla somma dell'età e degli anni lavorati. L'età pensionabile per le donne del pubblico impiego è salita, a tappe, fino a 65 anni. Il Trattamento di fine rapporto per la prima volta è stato rateizzato.

LA RIFORMA FORNERO Sono i tempi in cui i conti sbandano paurosamente, c'è il decreto Salva Italia: viene innalzata l'età minima per la pensione e le donne sono equiparate agli uomini. Arriva la fascia flessibile di pensionamento per i lavoratori con accredito contributivo che parte dopo il 1996. È la stagione drammatica degli "esodati": i lavoratori che con le nuove norme stringenti si sono trovati nel limbo tra la fine del lavoro (e dello stipendio) e la mancanza dei requisiti anagrafici per accedere alle nuove pensioni. In tale senso si sono ripetuti gli interventi di salvaguardia di questa categoria previdenziale. La legge di stabilità del 2014 ha introdotto il contributo di solidarietà sugli importi di pensione superiori a quattordici volte l'assegno minimo dell'Inps.

SPUNTA IL PART TIME La legge di Stabilità 2016 ha dato vita a una sperimentazione - per il triennio 2016-2018 - in base alla quale i lavoratori dipendenti del settore privato a cui mancavano non più di tre anni alla pensione di vecchiaia potevano passare al part-time al 40-60%, senza che la busta paga prima e la busta paga poi subissero detrazioni.

QUOTA 100 Siamo al presente: la legge di bilancio del 2019 ha introdotto Quota 100: uscita volontaria anticipata dal mondo del lavoro per chi ha almeno 38 anni di contributi e un'età anagrafica minima di 62 anni. Cent'anni totali, appunto. Non è però una riforma strutturale; è stata concepita come una deroga per il 2019, il 2020 e il 2021 da confermare ogni anno.

VERSO LA NUOVA RIFORMA Proprio pochi giorni fa il presidente del Consiglio Giuseppe Conte ha annunciato che nel 2021 l'opzione Quota 100 non sarà più attiva. Si accelerano i tempi per la nuova riforma: le maglie si stringeranno, anche perché bisogna fare i conti con i dati disastrosi del Pil messo sotto scacco dalla pandemia Covid. La base di partenza resta la "vecchiaia" a 67 anni ma si cercano correttivi per arrivare prima all'"anzianità" (Quota 102?), evitando di tornare ai paletti della riforma Fornero.
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