Gli spazi pubblicitari dei giornali ne erano pieni. Il Dentifricio Zarri assicurava «proprietà disinfettanti» e pareva non essere da meno l’Acqua di colonia Pim che «rinfresca e uccide i microrganismi». Anche la «birra fresca o vero cognac francese» della Premiata ditta Gambrinus prometteva miracoli ricordando che «è ormai accertato che le bevande alcoliche, se consumate in misura limitata, sono tra i migliori rimedi preventivi».

Quello era un mondo che veniva fuori dalla più tragica delle guerre e che, tra la primavera del 1918 e l’estate del ’19, dovette affrontare tre ondate di un’influenza («grippe» era il termine usato) chiamata «spagnola». Un male che si annunciava con dolori muscolari, spossatezza, brividi, tosse convulsa, e che nei casi più gravi - degenerato in polmonite e febbre emorragica - portava alla morte in pochi giorni. In Europa le vittime furono tre milioni, 700mila in Italia, 13mila in Sardegna.

La profilassi imponeva l’isolamento dei malati, la ventilazione dei locali, l’uso della mascherina; ma non esistevano cure specifiche, solo terapie tentate col chinino di Stato, il salasso, la sieroterapia (cioè la somministrazione di plasma con gli anticorpi di una persona guarita). Antichi e nuovi rimedi camminavano a braccetto, c’era chi consigliava il tabacco da fiuto, chi impacchi di aceto bollente, chi lo zucchero (allora un alimento sottoposto a razionamento) nel latte caldo. Doveva essere, quest’ultima, una soluzione curativa particolarmente utilizzata nei paesi della Sardegna, a guardare il numero delle corrispondenze dai paesi col titolo “La mancanza dello zucchero”. Il 4 dicembre 1918, per esempio, L’Unione Sarda pubblica la corrispondenza da Sorgono con l’appello «all’Ill.mo signor Prefetto di Cagliari (fino al 1927 l’Isola era suddivisa in sole due province: Cagliari e Sassari, ndr), affinché voglia intervenire onde far avere anche a questo paese ciò che ingiustamente ci viene negato». Il fatto era che «quasi tutti i paesi della provincia di Cagliari hanno avuto lo zucchero», non Sorgono però. «La necessità - scriveva il corrispondente - è ancora maggiormente sentita in questi giorni che l’epidemia miete già le sue vittime e le famiglie intiere giacciono a letto».

È passato un secolo, la scienza e la medicina hanno fatto enormi passi avanti, ma oggi come allora c’è chi partecipa alla corsa ai rimedi miracolosi per qualunque male, c’è chi coltiva una scriteriata fiducia nel potere magico e salvifico di pozioni e integratori.

Poco meno di un mese fa, era fine agosto, la Fda (Food and Drug Administration), agenzia governativa statunitense che si occupa di farmaci, ha pubblicato un tweet piuttosto incisivo: «Non sei un cavallo. Non sei una mucca. Davvero, piantatela». È che nella miriade di rimedi pubblicizzati come «miracolosi contro la Covid» sui social e su certi siti terrapiattisti di no vax e no mask, l’utilizzo dell’ivermectina stava prendendo una piega preoccupante. Si tratta di un farmaco antielmintico, utilizzato cioè contro i vermi intestinali; di solito viene usato sugli animali ma in certe soluzioni può essere somministrato anche alle persone per eliminare vermi e parassiti (ad esempio i pidocchi). Premesso che a oggi, nonostante gli studi e le sperimentazioni cliniche, non c’è alcuna evidenza scientifica della sua efficacia anti Covid, va ricordato che il farmaco era nell’elenco delle terapie domiciliari consigliate dalla Regione ai medici di famiglia (da qui la reazione degli Ordini di Cagliari e Oristano), e che - se utilizzato senza alcuna prescrizione, tantopiù per curare o prevenire infezioni o patologie che non c’entrano niente col suo impiego - può avere effetti collaterali molto seri: nausea e vomito, diarrea, eruzioni cutanee, gonfiore del viso e degli arti, calo della pressione, vertigini, allucinazioni e convulsioni.

La medicina sverminatrice è però solo l’ultimo ritrovato dei falsi «rimedi miracolosi» contro l’attacco del coronavirus. Ricordate quando, nei primi mesi della pandemia, circolava la bufala degli sciacqui di collutorio per fermare il virus in bocca? Poi sono arrivate le tisane calde «perché il virus si inattiva a 26-27°C», gli infusi di zenzero o aglio; i gargarismi con acqua calda salata o con aceto; la vaselina sulle narici, il getto d’aria calda dell’asciugacapelli.

La verità è che certi rimedi miracolosi non esistono, ma il carrozzone di turlupinatori, imbroglioni e saltimbanchi pronti a ingannare i creduloni, gli ignoranti, i disperati e i malati di arroganza intellettuale (categoria a cui appartiene gran parte dei no vax) ha ruote buone costruite ben prima dell’avvento dei social e di internet. Non è, insomma, una manifestazione del nostro tempo e di questa pandemia. È un carrozzone che ha percorso lunghe distanze anche in epoche (ed epidemie e pestilenze) lontane, in tempi del nostro passato più o meno prossimo. Cent’anni fa, per esempio, quando il mondo usciva dalla più rovinosa delle guerre e andava incontro alla morsa della febbre spagnola.​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​

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