Crociata dell’Ue contro gli smartphone nuovi: «Meglio riparare quelli usati al giusto prezzo»
La direttiva europea varrà anche su tablet e pc, lavatrici e televisori. Ma non su stampanti e macchinette per il caffè. Le associazioni dei consumatori si stanno organizzando per chiedere l’estensione dell’elencoRiparato è meglio. Riparato è bello. Può essere sintetizzata la nuova crociata ambientale promossa dall’Europa contro la corsa sfrenata all’ultimo modello di smartphone e pc. Ma vale anche per lavatrici, frigoriferi e lavastoviglie. Tutto scritto nella direttiva 2024/1799, approvata ad aprile dal Parlamento di Strasburgo e in vigore dal 30 luglio. La norma prevede il diritto alla riparazione che i fabbricanti devono garantire in maniera facile, veloce ed economica, anche dopo la scadenza della garanzia legale di due anni.
I ventisette Paesi dell’Ue hanno tempo sino al 2026 per mettersi in regola. Vuol dire che nell’immediato per i consumatori non cambia nulla. Ma intanto comincia la semina culturale sulla necessità di smontare le regole dell’iperconsumismo occidentale che trovano il loro fondamento nell’obsolescenza programmata. Non solo: siccome la lista dei prodotti riparabili non include, per esempio, macchinette per il caffè e stampanti, l’obiettivo è estendere il diritto a un numero maggiore di beni.
Ma andiamo con ordine. La nuova norma Ue parte dalla consapevolezza che le grandi multinazionali non facilitano il reperimento dei pezzi di ricambio e, parallelamente, chi si occupa di trovare una soluzione ai guasti non sempre lo fa a costi ragionevoli. Solo che fino a oggi a questa giungla nessuno ha mai messo mano, lasciando che il mercato si autoregolasse, con l’ineluttabilità dei nuovi acquisti da un lato e il prezzario libero dall’altro. Adesso invece c’è una precisa road map da seguire, un percorso a tappe.
Intanto: non appena i Paesi dell’Ue recepiranno la norma (è sempre il Parlamento che vota per trasformare una disposizione comunitaria in legislazione nazionale), i produttori avranno l’obbligo di informare i consumatori sui prodotti che potranno riparare. E dovranno farlo indicando, su un apposito modulo, condizioni e prezzi. Quindi regole chiare, ben definite. Non solo: se il prodotto è ancora in garanzia, questa verrà estesa di un anno nel caso in cui si renda necessaria la riparazione. Ancora: entro il 31 luglio 2027 dovrà essere arrivata una piattaforma europea in cui trovare (e quindi poter contattare) gli operatori che garantiscono il servizio, ma anche l’elenco dei rivenditori di beni ricondizionati. Sarà inoltre possibile trovare gli acquirenti di prodotti difettosi. Insomma, l’economia circolare diventerà a portata di click.
La direttiva 1799 introduce nella legislazione Ue il diritto alla riparazione attraverso ventitré articoli. Uno di questi, il numero 4, punta a tutelare i consumatori pure sulla durata del servizio. Nel senso: un prodotto dovrà essere aggiustato in tempi consoni, visto che la lungaggine è di per sé una condizione che scoraggia e fa propendere verso l’acquisto di un nuovo bene. Esattamente quello che Bruxelles vuole impedire. O comunque rallentare.
La direttiva, come approccio, è stata accolta con soddisfazione dalle associazioni che tutelano gli acquirenti. «Si tratta – dicono da Federconsumatori – di un passo avanti epocale per un’Europa più green, sostenibile, equa. Ci auguriamo che il Governo italiano sia tra i primi a disporre prontamente il recepimento di questa normativa, utile ai cittadini e al Paese». Dalla Federazione, la vicepresidente nazionale Giovanna Capuzzo, rimarca però che «il Parlamento Ue avrebbe potuto fare di più, per esempio introducendo l’obbligo e non della facoltà dei riparatori di fornire gratuitamente il modulo europeo di informazioni sulla procedura. Peraltro il servizio di diagnostica sarà a pagamento».
Resta il fatto che l’obsolescenza programmata, su cui troppe multinazionali hanno costruito la propria fortuna, incassa una spallata. La cultura del riuso è sempre stata considerata il male assoluto nella società dell’iperconsumo, a partire dal Dopoguerra. E tuttavia è dagli anni Venti del Novecento che il ciclo di vita di un bene viene deciso in anticipo. L’idea balenò a un gruppo di aziende europee produttrici di lampadine. L’accordo, siglato a Ginevra, prevedeva che non durassero più di mille ore. Prodotti con data di morte annessa. Per tenere in vita gli affari. Adesso l’inversione di tendenza. Un secolo dopo, sempre nel Vecchio Continente.