Dicono sia il frutto del futuro, quello che meglio si adatta ai terreni e che meno li impoverisce, che ha bisogno di poca acqua e che possiede delle qualità straordinarie. Eppure, il fico d’India (Opuntia ficus-indica) in Sardegna è pressoché ignorato. Origine messicana, ma presente nell’isola da diversi secoli – forse arrivato grazie agli arabi, il che spiegherebbe perché viene chiamata “figu morisca” -, la pianta è cresciuta in maniera spontanea un po’ ovunque. Per via delle spine è stata trasformata in “recinzione” dai proprietari terrieri che non volevano spendere in pietre e manodopera o, in tempi più moderni, in reti e paletti.

Giusto per comprenderne le potenzialità, in Sicilia attualmente sono poco meno di 5.000 gli ettari coltivati a fico d’India, in Sardegna non arrivano a 50, cioè l’uno per cento degli impianti su cui l’altra grande isola del Mediterraneo ha scommesso da tempo, forse anche perché la Regione incentiva questo tipo di coltura con sostegni economici. <Qualcosa sembra stia cambiando – dice Martino Muntoni, agronomo, direttore di Agris – anche se molto lentamente. Però abbiamo notato che c’è un certo interesse intorno a questo frutto troppo a lungo ingiustamente dimenticato>.

Una “ingiustizia” che Muntoni spiega in modo molto semplice: <Molti non sanno che gli zuccheri contenuti nel fico d’India non comportano alcun aumento della glicemia nel sangue. Non solo: il frutto contiene la taurina, una proteina diventata ingrediente principale delle bevande energetiche più note e più vendute al mondo. Ma quella del fico d’India è l’unica di origine vegetale>. Un aspetto da non sottovalutare se si guarda ai vegetariani e ai vegani, target sempre più importante e consistente sul mercato.

Ma per quanto riguarda gli agricoltori, i punti determinanti per indirizzarli verso questo frutto sarebbero tanti. Intanto, non teme il gelo e si accontenta di poca acqua (chiaro che l’irrigazione in un impianto razionale è fondamentale), il nemico peggiore è la grandine che, stavolta non vale il “mal comune mezzo gaudio”, quando arriva rovina tutte le colture. Inoltre, l’impianto non ha costi eccessivi: con meno di 5mila euro per ettaro è possibile mettere a dimora tra le 250 e le 280 piante per una produzione di circa 250 quintali di frutto.

In Sardegna, anni fa, la Regione attraverso Agris aveva avviato la sperimentazione della coltura del fico d’India nei campi di Uta, Ussana, a Oristano nell’istituto della facoltà di Agraria dell’Università di Sassari e nel Sassarese. In particolare, tuttavia, la coltivazione privata sarda è concentrata nel Medio Campidano e nel Sud dell’isola. Ancora, come spiega Fulvio Tocco, uno dei massimi esperti italiani, non è stata recepita la funzione del fico d’India come pianta da reddito: <Qualcuno, solo adesso sta integrando questa con altre produzioni. Ma è sempre poco per poter creare una rete simile a quella siciliana. Servono estensioni importanti, quelle che, per intendersi, sarebbero in grado di generare l’impulso giusto per stimolare l’emulazione>. Di recente, in Messico, stanno riscuotendo un certo successo gli accessori realizzati con le fibre dei cladodi (le pale): cinture, giacche e borse con tessuti simili alla pelle ma decisamente più ecologici. E le applicazioni non si fermano qui.

<L’industria cosmetica – sottolinea ancora Tocco – è un’altra opportunità. Trattandosi di una pianta cactacea i suoi usi sono svariati, senza dimenticare che è in grado di produrre notevoli quantità di biomassa. E poi ci sono gli usi alimentari>. Già, dal frutto fresco allo sciroppo, dalla confettura alla sapa, ai distillati. Gli stessi cladodi giovani, pieni di fibre e proteine, sono consumati in tutta l’America centrale e meridionale, e in Sicilia vengono preparati in diversi modi. Insomma, il fico d’India come il maiale, nel senso che non butta via niente. <Certo – conclude Tocco – ma è necessario cha alla base ci sia una produzione consistente altrimenti è tutto inutile, i piccoli produttori non bastano>. Tuttavia, un minimo di interesse lo si riscontra. Alle due “Sagre del Fico d’India”, organizzate a Serrenti nel 2019 e 2020, erano presenti una decina di agricoltori che hanno scelto di integrare il reddito utilizzando parte del loro terreno per la coltura dell’Opuntia ficus-indica. Soprattutto, alcuni hanno anche trasformato il prodotto: c’è chi ha fatto del sapone dalle pale, chi dei sott’olio, altri la marmellata e il liquore. Segnali, peraltro provenienti da giovani imprenditori con la passione per la campagna e, anche, con una laurea in agraria. L’auspicio è che sia solo un punto di partenza.  

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