“A quarant'anni la vita inizia... Me lo sarò sentito ripetere centinaia di volte, quando ero giovane e tutti mi chiamavano molto semplicemente l'Uomo Ragno”. Parola di Walter Zenga, che ripercorre vita e carriera, raccontandole in “Ero l'uomo ragno. La vita, il calcio, l'amore”, Cairo (235 pagine, 17 euro). Gli aneddoti si susseguono frenetici, in una catena di intrecci, episodi e imprevisti che ne fanno quasi un romanzo. Invece è vita vera, vissuta attimo dopo attimo, con la velocità di chi è abituato ad agire d'istinto, a leggere le situazioni intuendo le mosse degli avversari. Qualche volta ottenendo grandi vittorie, altre prendendo sonori gol. Ma la consapevolezza e la lucidità non manca a chi ormai guarda il passato con la serenità di aver fatto sempre ciò che sentiva giusto. Si riconosce una dote, quella di avere un “impermeabile” che gli permette di farsi scivolare le critiche, le insicurezze e anche le delusioni più cocenti, rendendolo forte e vincente sempre e comunque. “Da Milano fino a Genova, da Padova fino a Boston, passando per Gaziantep in Turchia, e in ogni angolo del mondo”. Il filo rosso che guida le fasi della vita è Alfonso, suo padre, che, quando era un bambino, gli fa il regalo più importante: un pallone di cuoio, perché la passione del figlio possa diventare qualcosa di vero, di importante. Quello stesso padre, che gli indica la strada, poi gliela complica, coinvolgendolo in una questione economica che creerà non pochi problemi. La prima di tante incomprensioni che allontaneranno padre e figlio, fino a farli ritrovare sul letto di morte di Alfonso e dopo su quel punto nel cielo, che Walter fissa prima di ogni partita. La strada però è segnata: sarà un portiere, sarà un Numero Uno. Prima di tutto nella sua seconda famiglia: l'Inter, dove lavorerà per mantenersi, si allenerà nella Primavera e nasceranno le condizioni per stipulare i suoi primi veri contratti. Per il ragazzo che viene da via Ungheria si apre un percorso insperato ma desiderato fortemente. Tante soddisfazioni: i complimenti, i gesti atletici che lo distinguono, la carriera nella sua amata Inter. Ma anche delusioni: gli infortuni, le partite sbagliate, la sensazione di non essere stato ripagato come avrebbe meritato. E il tempo che scorre inesorabilmente. Sembra impossibile, ma arriva un momento in cui si sente dire che non può più giocare. Il trauma è forte e la sensibilità dell'uomo supera la freddezza del calciatore. Non è solo, però. Ci sono le sue donne: Elvira, Hoara, Raluca, per citare le tre più presenti. Ognuna gli ha donato qualcosa, risvegliando in lui i sentimenti da cui è sempre ripartito dopo le notti più buie. Alcune di loro gli hanno regalato il bene più prezioso della sua vita: i figli. “Corretto o non corretto, quando mi sono trovato davanti a ogni singolo bivio esistenziale e professionale, nell'inseguire la mia decisione tra milioni di dubbi ho sempre cercato di fare ordine mettendo in fila tre valori. Fondamentali e indiscutibili: la mia famiglia, la mia carriera, il mio benessere”. Il secondo tempo della sua vita lo vede allenatore, una panchina al posto dei pali, ma la stessa determinazione di quando doveva parare i rigori più difficili. Tante esperienze: Bulgaria, Turchia, Arabia Saudita; anche molta Serie A: Catania, Palermo, Venezia, Crotone. Esperienze a volte fugaci, ma sempre intense. E infine Cagliari: l'ultima panchina, quella più particolare. I lunghi mesi del lockdown, la distanza dalla famiglia, gli schemi che non trovavano corrispondenza reale. Fino al ritorno sui campi per affrontare una nuova sfida. Ancora una volta da Numero Uno.

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