In italiano la traduzione letterale sarebbe “languore” o “languire”, ma non rende l’idea. Com’è avvenuto con lockdown, booster e così via, la pandemia ci lascia in eredità un altro concetto che in qualche modo sembra intercettare esattamente i sentimenti di tante persone, anche se non abbiamo ancora le parole giuste per dirlo in italiano. Languishing: da quando il mondo è entrato nell’incubo del Covid, gli psicologi ne parlano sempre di più. A quanto pare è una delle ferite più frequenti che restano nell’animo, dopo due anni di paura, dolore, libertà perdute, vite stravolte.

Languishing è un tipo di disagio difficile da classificare, perché è un po’ una via di mezzo, un limbo. Indica uno stato di apatia, collegata a un basso tono dell’umore. Sensazione di vuoto; carenza di scopi per cui valga la pena attivarsi. Sta al di qua della patologia psichica: non si è depressi, ma neppure felici. Viene definito come “assenza di benessere”, che non significa malessere ma può comunque risultare pesante. Perché compromette la gioia di vivere, e infatti è identificato anche con l’incapacità di trarre gratificazione dalle attività che solitamente ce la concedevano.

Forse capita a tutti di sentirsi così, qualche volta nella vita. Si parla di languishing quando questa condizione persiste per periodi anche molto lunghi, spesso senza eventi scatenanti o situazioni oggettive a cui far risalire questo stato d’animo. Non c’è voluto il Covid, per portare gli studiosi a riflettere sul languishing: il termine ricorre da più di vent’anni nelle ricerche sulla salute mentale. Ma la pandemia sembra aver accentuato il fenomeno.

L’indagine

Uno studio pubblicato nel 2020, condotto da decine di ricercatori e curato da Joel Msafiri Francis dell’università del Witwatersrand (Johannesburg), ha interpellato oltre 9.500 individui, in 78 Paesi diversi, nei mesi da aprile a giugno del 2020: la fase iniziale della pandemia, quando in quasi tutto il mondo si applicavano restrizioni più o meno rigide ai contatti sociali. Circa il 10 per cento dei partecipanti alla ricerca ha descritto la propria situazione in termini affini al concetto di languishing. Non depressione o burnout, ma quello stato in cui non si sta né bene né male.

“Nel periodo dopo il lockdown, tra la prima e la seconda ondata del virus, alcuni pazienti dicevano proprio questo: non sto male, ma neppure bene”, conferma Nicola Mameli, psicologo e psicoterapeuta con studio a Cagliari. “Non riuscivano a descrivere il proprio disagio. Chi arriva dal terapeuta ha già una certa consapevolezza, che è il primo passo verso la soluzione. Non poter definire con precisione uno stato d’animo complica le cose. Qualcuno ti dice: sono depresso. Ma in realtà è qualcosa di diverso”.

Gli studi in materia dicono che languishing e depressione possono presentare sintomi simili, e il primo può condurre alla seconda, o a sviluppare disturbi d’ansia. Ma non necessariamente, e comunque le analogie sono solo parziali. In un recente articolo per The Conversation, la docente di psicologia Jolanta Burke, della Rcsi University of Medicine and Health Sciences di Dublino, ha scritto che una caratteristica del languishing è “non sentirsi in controllo della propria vita, né capaci di crescere o cambiare. E neppure di avere un coinvolgimento pieno con la propria comunità, compresi amici e familiari”. Non dura per sempre, rassicura Burke, ma proprio la “bassa intensità” di questo disagio rischia di renderne più difficile l’individuazione.

“Quello che riscontro in pazienti di questo tipo – riprende Mameli – è la percezione di non riuscire a godersi le cose come se le godevano prima”. Questa può essere anche una prima forma di autoanalisi, per cogliere i primi segnali: “Posso per esempio chiedermi come riesco a vivere quello che prima mi rendeva felice. Meglio, peggio? O non me lo vivo per niente?”. Oppure ci si può soffermare sulla propria capacità di immaginare e portare avanti dei progetti a breve o medio termine.

Le cause del languishing possono variare da soggetto a soggetto. Ma non sembra così strano che la pandemia possa provocarlo con maggiore frequenza: “L’emergenza Covid – riflette ancora Mameli – è stata per tutti noi una causa di stress particolare, perché molto prolungata nel tempo ed estesa a tutto il pianeta. Non un trauma forte ed episodico, ma una sorta di stillicidio. Questo può portare a una tale alienazione, che poi diventa difficile riconquistare il benessere abituale”.

Come uno stillicidio

Non aiuta il fatto che, da più di due anni, varie volte l’andamento altalenante dell’epidemia ci abbia illuso di aver superato il peggio, salvo poi ripiombare nell’incubo dei contagi, dei morti, delle restrizioni. “L’incertezza sul futuro pesa moltissimo”, sottolinea lo psicoterapeuta: “Ancora adesso non siamo sicuri di esserne usciti, non abbiamo mai avuto una data sicura per la fine di questa angoscia. A volte vedevamo una schiarita, poi arrivava una nuova variante a riportare la paura”.

In simili circostanze le giornate scorrono tutte uguali e lente. Difficile sperare nel domani: “Cambia anche la percezione del tempo, è come guardare attraverso un vetro appannato. Si vive quasi anestetizzati. Non a caso, il lockdown è stato probabilmente sopportato meglio da chi ha potuto conservare senza troppi cambiamenti la routine del proprio lavoro”.

Strade semivuote e locali chiusi per la pandemia (foto Ansa)
Strade semivuote e locali chiusi per la pandemia (foto Ansa)
Strade semivuote e locali chiusi per la pandemia (foto Ansa)

Per chi sperimenta l’apatia del languishing, o qualcosa di simile, il primo rimedio è capire che è tutto sommato normale, e non è colpa di nessuno. “E poi, come sempre, è importante condividere le proprie emozioni”, conclude Mameli: “Non per forza con un professionista, si può iniziare con un familiare o un amico. Ma esternarle è fondamentale”. Ci si sente meno soli, si scaccia il tarlo che fa sentire sbagliato chi non si mostra invulnerabile. Si viene a patti coi propri limiti. Può essere un percorso duro, ma è sempre meglio che languire con lo sguardo perso nel vuoto.

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