La depressione può essere contagiosa? D’impulso chiunque direbbe di no, ma dieci anni fa fummo tutti potenzialmente cavie di un esperimento psicologico di massa che insinua qualche dubbio. In realtà il test riguardò “solo” 700mila persone di lingua inglese, scelte a caso da Facebook tra i suoi utenti dell’epoca (che erano circa un miliardo; adesso sono il triplo), ma già quel numero fa capire l’enormità della rilevazione. La cosa suscitò forti polemiche perché l’esperimento fu condotto in maniera segreta: i partecipanti erano del tutto inconsapevoli, tanto che la vicenda venne fuori solo due anni dopo, quando la stessa Facebook annunciò pubblicamente i risultati.

L’indagine mostrò la possibilità di condizionare gli stati d’animo di chi frequenta il social network, attraverso i post che gli si fanno vedere: contenuti di tipo negativo (tristi, pessimisti, polemici e simili) determinano un peggioramento dell’umore e dell’atteggiamento di chi li legge, mentre succede il contrario in caso di contenuti prevalentemente positivi. Naturalmente sarebbe esagerato dire che è possibile contagiare uno stato depressivo attraverso Facebook, ma certo la questione suscita preoccupazioni sul rapporto che ciascuno crea con la rete e i social.

I post “drogati”

Il caso dell’esperimento voluto dall’azienda di Mark Zuckerberg è noto soprattutto nel mondo anglosassone, proprio perché coinvolse solo persone che comunicano sul web in inglese. Gli utenti selezionati (689.003, per la precisione) furono divisi in quattro gruppi: due erano i gruppi di controllo, gli altri le “cavie” vere e proprie. Com’è noto, Facebook utilizza degli algoritmi per selezionare, tra i milioni di contenuti, quelli che vengono mostrati a ciascuno quando accede alla piattaforma. È esperienza comune il fatto di non vedere i post di tutti i contatti che abbiamo, ma più o meno sempre quelli delle persone con cui interagiamo di più, o con cui ci sono, almeno per i criteri del software, dei fattori di vicinanza.

Per una settimana, nel 2012, Facebook alterò i propri algoritmi in modo da mostrare, a uno dei gruppi dell’esperimento, una maggiore quantità di post con parole che esprimevano emozioni di tipo, in senso lato, negativo, secondo la classificazione del programma Liwc (Linguistic inquiry and word count). Un altro gruppo, invece, fu esposto a una maggiore quantità di contenuti con emozioni positive.

In seguito, sempre attraverso l’analisi automatica dei testi, sono stati classificati i post scritti negli stessi giorni dalle ignare persone coinvolte nell’esperimento. È emerso che chi era stato esposto maggiormente a emozioni negative, aveva a sua volta pubblicato contenuti in prevalenza negativi; e analoga simmetria fu verificata per chi invece si era imbattuto in emozioni positive.

Lo studio venne preparato e condotto da tre ricercatori universitari: Adam D. I. Kramer, Jamie E. Guillory e Jeffrey T. Hancock. Presentarono al pubblico le loro analisi due anni dopo, nel 2014: nella sostanza, l’esperimento dimostrava che il contagio delle emozioni, oltre che nelle interazioni dirette tra le persone, può avvenire anche attraverso i social network.

All’epoca non era ancora esploso lo scandalo Cambridge Analytica, la società britannica che aveva utilizzato a scopo di orientamento elettorale i dati personali di 87 milioni di account Facebook; tantomeno le polemiche sul le ipotesi di interferenze social dei russi nell’elezione di Donald Trump alla presidenza Usa, nel 2016. Ma già l’esperimento sulle emozioni sollevò un’ondata di critiche contro Facebook. Soprattutto perché gli utenti coinvolti non erano stati informati. Del resto, se fossero stati avvertiti la ricerca non avrebbe fornito risultati attendibili.

Le scuse della società

Formalmente non erano state violate le regole di Facebook che ogni utente sottoscriveva al momento dell’iscrizione, col consenso informato all’utilizzo in forma anonima e aggregata dei propri dati. Ma in questo caso non si era trattato solo di usare informazioni per tracciare il profilo di un consumatore, bensì di condizionare l’umore e le emozioni di persone che, diversamente, in quei giorni sarebbero state meno tristi, o meno arrabbiate. O meno allegre, chissà.

Le reazioni negative alla rivelazione dell’esperimento colsero di sorpresa i vertici di Facebook. “Ci stanno usando come topi da laboratorio”, scrisse qualcuno. “Avremmo dovuto fare alcune cose diversamente”, ammise Mike Schroepfer, direttore tecnologico della società di Menlo Park, “trovare altri modi non sperimentali per condurre la ricerca. E non siamo riusciti a comunicare chiaramente che cosa abbiamo fatto e perché”.

Facebook ha poi modificato alcune regole a tutela della privacy degli iscritti, ma i sospetti non sono finiti. “Non c’è dubbio che i grandi social network siano in grado di orientare le scelte, di vario tipo, dei loro utenti”, riflette Francesco Micozzi, avvocato esperto di diritto dell’informatica e delle nuove tecnologie: “Ma può farlo grazie a quello che gli diciamo su noi stessi. La vicenda Cambridge Analytica è emblematica, in quel caso furono utilizzate le informazioni liberamente consultabili da chiunque su Facebook”.

In realtà, col network di Zuckerberg si realizza uno scambio palese: “Ci viene dato un servizio apparentemente gratuito, ma in realtà lo paghiamo con i nostri dati”, prosegue Micozzi. “Questi servono di solito a farci vedere pubblicità mirate. Ma se un social network volesse servirsene per far scoppiare una guerra civile, avrebbe ottime probabilità di riuscita. Più facilmente, potrebbe voler orientare l’opinione collettiva su temi specifici: magari i controlli sulla rete, o la tassazione sui profitti delle multinazionali del web”.

Regole di prudenza

I social non carpiscono le nostre informazioni subdolamente: siamo noi a fornirgliele. Per cui sta sempre a noi fare attenzione. “Un post che pubblichiamo oggi può apparire irrilevante”, avverte il legale, “ma magari tra vent’anni potrebbe indurre un’assicurazione a non farci una polizza sulla vita, perché rivela un comportamento dannoso per la nostra salute”. È bene essere gelosi di tutti i dati che ci riguardano, ma di quelli sanitari ancor di più. Anni fa, ricorda Micozzi, in Belgio fecero una candid camera illuminante: un presunto indovino in un gazebo era in grado di raccontare, ai passanti che si sedevano davanti a lui, numerosi dettagli della loro vita privata. “Dal numero di conto corrente alle date dell’ultima vacanza all’estero, o un ricovero ospedaliero, veniva fuori di tutto”, racconta l’avvocato. “Poi, di fronte allo stupore provocato, l’indovino spostava una tenda e mostrava tre o quattro ragazzi che, con banali pc come quelli di casa, avevano rapidamente recuperato quelle informazioni dal web basandosi solo sul nome e cognome del malcapitato, e poi girandole sul tablet dell’indovino”.

Insomma, se nel mondo di oggi è pressoché impossibile non essere connessi, conviene però dotarsi di qualche regola di prudenza e valutare bene che cosa si vuole condividere. Perché la rete ha una caratteristica terribile: una memoria eterna. Una volta che le raccontiamo qualcosa di noi, non lo dimentica più. Neppure quello che noi stessi vorremmo dimenticare.

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