Ci vuole coraggio per scrivere un libro sulla propria vita. Senza tacere niente, comprese le discese ardite e le risalite. Ancora di più per un padre di un bambino, di uno splendido bambino, autistico. Andrea Melis, per tutti Bubu, maestro di tennis, c’è riuscito. “Tennis aut”, Europa Edizioni, è una dichiarazione d’amore per lo sport e per il figlio Federico lunga 195 pagine. Verrà presentato a marzo nelle librerie di Cagliari e poi nei saloni del libro nel resto d’Italia.

Andrea Bubu Melis (foto concessa da Andrea Melis)
Andrea Bubu Melis (foto concessa da Andrea Melis)
Andrea Bubu Melis (foto concessa da Andrea Melis)

Come è nato questo libro?

«Un anno dopo la diagnosi di autismo di mio figlio Federico, su consiglio degli specialisti, psicologi e terapisti comportamentali, ho iniziato a tenere un diario dei suoi comportamenti. Volevo vedere il suo cammino, i suoi miglioramenti. Qualsiasi cosa accadesse, la scrivevo in un diario, come appunti che condividevo con i terapisti. È diventato una sorta di diario di bordo di mio figlio».

Tennis e autismo.

«Scrivendo questi appunti e rileggendoli come racconti, mi sono accorto di trovare sempre più similitudini tra l’autismo e il tennis. Un esempio (che è anche esagerazione), per carità, ma i vari tic dei campioni come Nadal, oppure le routine per la preparazione dei tennisti, per esempio il cambio del grip a ogni intervallo di Gasquet, sono assimilabili ai comportamenti di Federico. Sempre esasperando i concetti, un po’ tutti i tennisti sul campo sono autistici, nel senso che devono ripetere miliardi di volte determinati movimenti. Il tennis è ordine, disciplina, ripetizione maniacale del gesto tecnico. Nello stesso modo la persona autistica deve ripetere sempre i soliti gesti, le solite procedure per restare sereno».

L’idea del libro?

«È nata da un fatto che ha cambiato la mia vita: la fine del mio rapporto di lavoro con il circolo nel quale ero nato, il Tennis club Cagliari. Su Facebook ho postato una lettera in cui ringraziavo il tennis in generale come sport. Quelle parole sono arrivate, non so come, all’editore al quale sono sembrate una lettera d’amore nei confronti di questo sport. Ha voluto i miei appunti su Federico e ciò che avevo scritto un po’ come terapia personale sul tennis, comprese le lezioni a un ammiraglio durante il servizio di leva, il mio lavoro come coach anche di giocatrici di assoluto livello internazionale come Tathiana Garbin, le esperienze nei tornei giovanili più importanti al mondo, Slam compresi, al seguito degli azzurrini tra i quali c’era il mio allievo Daniele Piludu, talento da me scovato nei campetti di  periferia a Quartu. Tennis e autismo, tennis out: così è nato il libro».

Quanto coraggio ci vuole per scrivere un libro così personale?

«Tantissimo perché io mi sono messo a nudo su tante cose. Sia riguardo al fatto di vivere l’autismo tutti i giorni, sia riguardo al mio rapporto con il tennis. Ho cercato di fondere la mia vita con Federico con il mio percorso con la racchetta in mano, da promessa a giocatore sino a diventare maestro di periferia, coach internazionale per poi tornare a insegnare ai bambini».

A che età vi siete accorti della patologia di Federico?

«Aveva 18 mesi, era un bambino normalissimo, stando ai controlli di crescita dei pediatri. Parlava, camminava, aveva contatto oculare, faceva le pernacchie, imitava la sorella. Tutto d’un tratto, una sera, mia moglie Daniela l’ha visto cambiato: ha perso il contatto con gli occhi, lei lo chiamava e lui non si voltava più, ha iniziato ad avere comportamenti strani, a camminare sulle punte, strofinare  le matite e i fiori, ci è sembrato di averlo perso, inspiegabilmente, da un momento a un altro».

Quali difficoltà incontra la vostra famiglia?

«Noi viviamo questo mondo dell’autismo spesso in assoluta solitudine. La gente sa che esiste l’autismo ma non ha minimamente idea delle difficoltà, che sono tante. L’ho scritto nel libro: solo per andare a scuola Federico si deve alzare alle 6,30 perché ha bisogno del doppio del tempo per prepararsi. Ha le sue stereotipie, i suoi meccanismi, che bisogna rispettare adesso è un bambino perché altrimenti potrebbero aggravarsi quando crescerà, con il passaggio all’adolescenza. Federico non è verbale, per comunicare usa un tablet con le immagini, ha bisogno di un continuo “addestramento” che lo porti ad associare immagini ad azioni o a richieste. L’autismo è un problema molto conosciuto a livello generale ma poco discusso e condiviso: da qui anche l’interesse alla pubblicazione da parte dell’editore. Lo Stato potrebbe fare molto di più e non parlo di elargizione di contributi in denaro, ma di terapie comportamentali. Mio figlio avrebbe bisogno di 25 ore alla settimana, la sanità pubblica ne garantisce tre. Il resto dobbiamo pagarlo noi: un’ora con il logopedista costa 45 euro, con lo psicologo 35. L’indennità di invalidità, una fesseria, non basta, evidentemente, c’è un grosso carico che pesa sul bilancio anche economico di una famiglia. Ci sono momenti in cui dal punto di vista finanziario non ce la facciamo e allora siamo obbligati a tagliare le terapie. E non gliene importa niente a nessuno, parlo di chi dovrebbe aiutarci. L’autismo è una disabilità particolare non curabile, di carattere intellettuale: Federico ha bisogno di assistenza 24 ore al giorno».

La quotidianità?

«L’aspetto positivo è che Federico sembra un bambino normale: non ha problemi motori, distrofie gravi. C’è il rovescio della medaglia: agli occhi di chi non lo conosce e non lo sa, sembra un bambino che si spoglia in un market o che devasta la casa come se fosse passato uno tsunami per capriccio». 

Un libro per certi versi terapeutico.

«Sì, anche per me o la mia famiglia. Ce l’hanno consigliato gli specialisti: non nascondetevi, siate trasparenti, anche sui social io parlo di Federico, pubblico foto sue, non ce ne vergogniamo, ci mancherebbe. E ho scoperto che a me scrivere fa bene».

Nel libro c’è anche tutta la delusione per il rapporto di lavoro concluso con il Tennis club Cagliari.

«Sinceramente sul piano umano, considerando anche la mia situazione familiare, mi aspettavo un comportamento diverso. Io ringrazio il tennis come sport e il Tennis club Cagliari come società che mi dato tanto, ma mi sono sentito tradito. Un po’ da tutti».

Andrea Bubu Melis a Wimbledon (foto concessa da Andrea Melis)
Andrea Bubu Melis a Wimbledon (foto concessa da Andrea Melis)
Andrea Bubu Melis a Wimbledon (foto concessa da Andrea Melis)

Nel libro c’è la prefazione di Tathiana Garbin, ex giocatrice di Federation Cup e numero 20 al mondo.

«Sono stato il suo coach nel circuito internazionale, ci conosciamo molto bene, abbiamo un ottimo rapporto e ha saputo descrivere bene gli scambi -  come sul campo - presenti nel libro tra tennis e autismo».

C’è anche tanto tennis.

«Sì, compresi aneddoti come i treni e gli aerei persi per raggiungere un torneo, i lunghi viaggi in auto con i migliori talenti del centro tecnico federale, come mi ha accolto a casa sua Riccardo Piatti, il coach di Yannick Sinner, uno dei migliori coach al mondo. Ma tutto è partito dal bar del tennis club Cagliari che gestivano i miei genitori, dal fatto che i miei fratelli ed io avessimo come parco giochi il Tennis club di Monte Urpinu e come compagno di giochi racchetta e pallina da tennis».

Andrea Bubu Melis (foto concessa da Andrea Melis)
Andrea Bubu Melis (foto concessa da Andrea Melis)
Andrea Bubu Melis (foto concessa da Andrea Melis)

Poi arriva lo tsunami.

«Libri di tennis ce ne sono tanti, sull’autismo raccontato in questo modo pochi. Lo tsunami è l’immagine che racconta le crisi di Federico: c’è il sole, sembra tutto tranquillo, poi all’improvviso per un niente (magari perché le stanghette degli occhiali non sono allineate) si gonfia di rabbia, diventa un altro, perde il controllo del corpo e della mente, distrugge tutto».

Nel libro emerge anche il vostro rapporto padre-figlio.

«Federico mi ha arricchito, mi ha migliorato anche come insegnante di tennis, non pretendo più che i miei allievi giochino tutti come Daniele Piludu o Elisa Salis, i miei due pupilli. I punti deboli di un bambino li guardo adesso come punti di forza. Federico lo tratto come un bambino normale: d'altronde anche in noi, quando le cose non vanno bene, si scatena una tempesta di emozioni che lui esprime con lo tsunami e che invece noi siamo capaci di gestire. Ma in fondo è lo stesso sentimento.  Alla fine lui che si spoglia al market o che fa la pipì in una fioriera lo paragono ai colpi sotto le gambe o alla stop volley nel tennis: un modo di esprimersi sui generis, eccezionale».

Il libro inizia e finisce con dei sogni.

«I più importanti sono rivolti a Federico. I sogni che ogni genitore fa per il proprio figlio. Che sia felice e autonomo, che abbia una vita dignitosa. Anche quando noi non ci saremo più».

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