Comparve all’improvviso in una notte di 60 anni fa. All’inizio era solo una barriera di filo spinato. “Non abbiamo nessuna intenzione di costruire un muro”, aveva assicurato appena due mesi prima il presidente della Germania Est, Walter Ulbricht. I dirigenti della Ddr non erano da prendere sempre alla lettera. Fu proprio Ulbricht a volere che Berlino venisse divisa in due, senza immaginare che quel brutto anello di cemento sarebbe diventato il simbolo più odioso della guerra fredda. Nato per difendere dalle attrattive dell’Occidente il mondo comunista, finì forse per accelerarne la dissoluzione.

Quel filo spinato spuntò fuori il 13 agosto 1961. Ma già nel giro di pochi giorni fu sostituito dai primi elementi solidi. Ben presto prese la forma del Muro di Berlino, anche se poi nel corso degli anni la sua struttura cambierà più volte.

Alla fine divenne praticamente un doppio confine concentrico e la zona interna fu chiamata “la striscia della morte”, non serve molta immaginazione per capire perché. Ulbricht voleva essere sicuro di fermare l’emorragia dei suoi connazionali verso la Repubblica federale tedesca: in mancanza di controlli stringenti, erano sempre di più quelli che decidevano di sottrarsi all’oppressione del regime rifugiandosi all’Ovest. E sicuramente, da questo punto di vista, il Muro fece il suo mestiere: dal 1961 al 1989 – anno dello smantellamento – emigrarono appena cinquemila tedeschi dell’Est, a fronte degli oltre due milioni e mezzo che se n’erano andati dal 1949 al 1961.

Tentativi falliti e riusciti

La vigilanza ferrea al confine tra le due Berlino rese molto difficile la fuga: provarci significava rischiare la morte, e infatti circa duecento persone – cifra ufficiale, forse approssimata per difetto – persero la vita, tra cui persino alcuni bambini. Ma non esistono fortezze inespugnabili: negli anni, molti riuscirono a passare dall’altra parte.

Il più celebre dei tentativi riusciti è probabilmente il primo, messo a segno addirittura il 15 agosto 1961, quando il muro era ancora in costruzione. Il sottufficiale Hans Conrad Schumann aveva 19 anni e si era arruolato nell’esercito della Repubblica democratica tedesca poco più di un anno prima, ma senza una vera vocazione. Diciamo che, per come andavano le cose all’Est, la carriera militare era un modo per garantirsi un minimo di certezze. Ma quando vide che il suo Paese si stava trincerando dietro una cortina fatta non solo di ferro, ma di ostilità e chiusura verso il resto del mondo, Conrad sentì confusamente che tutto ciò era sbagliato. Senza saper bene cosa fare, voleva però fare qualcosa. Il caso lo aiutò a decidere.

Nel terzo giorno di costruzione del muro si trovò a sorvegliare il punto di frontiera in Bernauer Strasse; dall’altra parte del filo spinato c’erano alcuni colleghi-nemici, ossia i soldati della Germania Ovest. Uomini che avevano il suo stesso identico umore, ma la divisa di un altro colore, avrebbe detto De Andrè. Non è mai stato chiarito che cosa sia successo prima del momento topico, pare che i militari occidentali abbiano parlato con Schumann esortandolo a saltare. E alla fine, saltò.

Il monumento a Schumann in Bernauer Strasse a Berlino (da Wikipedia)
Il monumento a Schumann in Bernauer Strasse a Berlino (da Wikipedia)
Il monumento a Schumann in Bernauer Strasse a Berlino (da Wikipedia)

L’immagine di Conrad Schumann che scavalca il filo spinato con un balzo, come un ostacolista alle Olimpiadi, è tra le più note del ‘900. Anche qui giocò un ruolo decisivo il caso, nella persona del fotografo Peter Leibing, che era lì per documentare quel che da alcuni giorni stava sconvolgendo Berlino (e il mondo), e fu lesto a scattare la foto che fece di Schumann il campione della ribellione al totalitarismo sovietico.

Una vita in difficoltà

Il fatto che fosse un soldato a tradire la Ddr, uno di coloro che avevano il compito di applicarne le rigide regole, rendeva ancor più clamorosa quella fuga. Fu il primo grande argomento della propaganda occidentale contro il Muro di Berlino, simbolo dell’infelicità di chi viveva nel blocco sovietico.

Ma questa non è una storia a lieto fine. Almeno non per Conrad Schumann. Lo chiamarono eroe, ma non visse nella gloria. Aveva deciso in un attimo di lasciare tutto ciò che aveva, senza guardarsi indietro. “I miei nervi erano al punto di rottura”, dichiarerà tempo dopo, “in tre-quattro secondi era tutto finito”. Poi però quella scelta condizionò tutta la sua esistenza. Dopo il salto la polizia di Berlino Ovest lo fece entrare in un’auto per proteggerlo e lo portò via. Non aveva con sé altro che la divisa. “Di cosa hai bisogno?”, gli chiesero. “Un panino”, rispose.

Oltre a quello, poi gli diedero lo status di rifugiato e lo aiutarono a trovare lavoro. L’ex sottufficiale si stabilì in Baviera, provò vari impieghi fino a stabilizzarsi come operaio alla Audi, ebbe una moglie e un figlio. Ebbe tante cose – compreso l’onore di essere ricevuto, negli anni ’80, dal presidente americano Ronald Reagan – ma non una vita serena.

La “Striscia della morte” (foto Thierry Noir da Wikipedia)
La “Striscia della morte” (foto Thierry Noir da Wikipedia)
La “Striscia della morte” (foto Thierry Noir da Wikipedia)

Dall’altra parte del muro erano rimasti i suoi parenti, e Conrad sapeva che avrebbero pagato caro il fatto di avere un congiunto traditore. Del resto gli agenti della Stasi, la terribile polizia segreta della Ddr, riuscirono facilmente a raggiungerlo anche nella Germania Ovest, e a più riprese cercarono di convincerlo a tornare in patria. Lui temeva sempre che potessero vendicarsi su di lui o sulla sua famiglia, conobbe la depressione e si perse nell’alcol, si può dire che non dormì mai sonni tranquilli. Neppure dopo la caduta del muro e la riunificazione della Germania. Schumann ritornò in visita all’Est, ma ormai i rapporti con i parenti rimasti lì erano rovinati. Fu un altro duro colpo.

Non c’era più gioia nelle sue giornate, e non c’era più nemmeno la gioventù che almeno consente di sperare nel futuro. Restava però quel carattere che già una volta lo aveva portato ad abbandonare tutto, a lasciare la sua vita in pochi secondi, con un balzo. Lo fece di nuovo, ma stavolta saltando dalla vita alla morte. Nel giugno del 1998 lo trovarono impiccato a un albero vicino a casa sua, in Baviera. Aveva appena 56 anni. Dissero che era scosso da un litigio con la moglie, ma chi si uccide solo per una discussione? Quel giorno, Schumann finì schiacciato dal peso che si portava appresso da quasi 40 anni. Per il suo ultimo balzo non c’era nessun fotografo, nessuno a incitarlo o ad accoglierlo. Solo il suo dolore, la solitudine, la voglia di fuggire via. Senza guardarsi indietro.

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