Della sua morte, avvenuta l’11 aprile, si è appreso solo nei giorni scorsi. Alberto Franceschini, fondatore delle Brigate Rosse, una delle figure più controverse del nostro tempo, passò più volte per i penitenziari sardi, soprattutto per il supercarcere di Badu ‘e Carros, che ospitò i terroristi per molti anni, dal momento che veniva considerato uno dei luoghi più sicuri, e anche più duri, per la detenzione. Fu proprio a Nuoro che nacque il suo rapporto con l’allora cappellano del penitenziario, don Salvatore Bussu. Un rapporto che si consolidò dopo il Natale del 1983, quando il prete barbaricino, sostenuto dall’allora vescovo di Nuoro monsignor Giovanni Melis, decise di non dire messa in carcere per protestare contro le condizioni carcerarie a cui venivano sottoposti i terroristi.

Franceschini, originario di Reggio Emilia, morto all’età di 78 anni, dopo aver preso le distanze dalla sua esperienza eversiva, era uno dei brigatisti allora detenuti a Badu ‘e Carros. Soprattutto era uno dei terroristi, insieme a Roberto Ognibene, Franco Bonisoli, Rocco Micaletto e altri, che protestavano perché venivano loro applicate condizioni molto dure, vietando qualsiasi contatto con l’esterno, compresa anche la ricezione di libri da leggere in cella o negando loro l’incontro con il cappellano del penitenziario. Fecero lo sciopero della fame e don Bussu prese le loro difese, nonostante i gravi crimini di cui si erano macchiati, perché, spiegò il religioso, non voleva giustificare un “terrorismo di Stato” da opporre al terrorismo dei brigatisti. In effetti, Franceschini venne ritenuto responsabile, prima di dissociarsi, dell’uccisione di due esponenti del Movimento sociale italiano a Padova, del sequestro a Genova del giudice Mario Sossi, oltre che essere uno dei capi fondatori delle Br insieme a Renato Curcio e Mara Cagol. Non poco, ma il ruolo dello Stato, spiegò don Bussu, era altro. E doveva emergere.

Don Salvatore Bussu
Don Salvatore Bussu
Don Salvatore Bussu

L’epilogo

In quel periodo, la Chiesa si era aperta ai carcerati, rendendo pratico il messaggio di Giovanni XXIII, il primo Pontefice a incontrare i reclusi. Non solo. I vescovi e i cappellani iniziarono a rendere il loro servizio religioso ai detenuti. Il rinnovamento della Chiesa passava anche attraverso questi gesti e il futuro cardinale Carlo Maria Martini, vescovo di Milano, andò più volte nei penitenziari non solo a incontrare i detenuti, ma anche a celebrare i sacramenti, dal battesimo ai matrimoni, oltre che confrontarsi con chi si era macchiato dei crimini peggiori, come gli stessi terroristi. Nella lettera di don Bussu che denunciava la situazione carceraria di Badu ‘e Carros, il religioso spiegava che “quelli che sono dietro le sbarre mi appartengono… come mi appartiene Cristo”.

Subito dopo la protesta, il ministro della Giustizia di allora, Mino Martinazzoli, decise di sospendere l’applicazione arbitraria di quelle norme del regolamento carcerario. La pietà e il perdono avevano prevalso. E fu una lezione per gli stessi brigatisti.

La lettera

Dieci anni dopo, il segno che quella lezione cambiò gli animi si poteva leggere in una lettera che Alberto Franceschini inviò a don Salvatore Bussu, con cui dal 1983 iniziò un rapporto personale ed epistolare che sarebbe andato avanti per anni. La lettera fu pubblicata dall’Unione Sarda in una pagina, a firma di Giancarlo Ghirra, che ricordava la vicenda del Natale 1983. Nelle parole di Franceschini i segni, se non di una vera conversione, certamente di un cambio di visione. Un’apertura alla pace e il rifiuto della violenza.

Lo spunto della lettera fu il commento di un libro di Vittorio Messori, “Ipotesi su Gesù”, che don Bussu regalò ad Alberto Franceschini. Il suo commento, nel ringraziare don Bussu e spiegargli di aver appena finito il libro, è un’analisi dettagliata di riflessioni nate da quella lettura. “La cosa che mi ha sempre colpito dei Vangeli è la concezione dell’amore – scriveva Franceschini – un amore radicale, universale, direi quasi paradossale (rispetto alla mentalità comune), che giunge al punto di affermare: ama il tuo nemico. Anche quando ero nella dimensione politica rivoluzionaria, mi chiedevo spesso: in una società dove tutto è violento, dove la prima cosa che viene insegnata è che alla violenza si può rispondere solo con la violenza, cosa c’è di più rivoluzionario se non essere capace di amare il proprio nemico”.

L’amore porta l’ex brigatista a pensare sia l’unico veicolo per “porsi fuori, essere altro rispetto a questa società”. I passaggi successivi sono il segno della trasformazione che l’ex capo delle Br sta subendo. “In quest’ultimo periodo mi sono chiesto più volte come mai ciò che prima mi sembrava puerile, assurdo, ora invece mi è diventato accettabile, possibile, se non altro intellettualmente. Il perché mi è stato chiaro immediatamente: perché sono un uomo sconfitto, che ha preso atto della sua sconfitta e che non se ne vergogna, non ne ha paura”. E poi analizzando il Vangelo, arriva a conclusioni profonde. “Il Vangelo è l’esperienza di uomini sconfitti, che però hanno saputo trasformare questa sconfitta in una vittoria… L’hanno trasformata in una vittoria perché sono usciti dalla logica del potere, della politica, della forza, e hanno affermato una logica nuova, veramente ‘eversiva’ di ogni dominio: la logica dell’amore e della Comunione. Non è forse Cristo l’uomo sconfitto per eccellenza?”. Arrivano in questo passo le parole che sembrano una vera e propria conversione: “L’uomo (Cristo) che va contro tutti i codici del tempo e insegna ad amare in primo luogo le vittime, gli sconfitti di sempre, i bambini, le donne, i malati. L’uomo che dice: date a Cesare quel che è di Cesare, cioè lasciate a Cesare il potere, la politica, la forza, perché altro è il Regno dei cieli”. Per poi concludere: “Ora io credo che solo l’uomo sconfitto può veramente conoscere l’uomo… E Cristo trasforma la sconfitta in una vittoria”. E ancora: “Non riesco a credere in un Dio che mi sovrasta, che mi sta fuori. Mi fa paura e non ne ho bisogno”. Parole di un uomo che ha tolto la vita, riconosce le sue colpe e scrive a colui che forse ha iniziato a spiegargli perché la violenza era solo una sconfitta.

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