Nella tarda primavera del 1943 Cagliari era una città di fantasmi, polvere e rovine. Dopo le spaventose incursioni di febbraio e di marzo, a maggio di quell’anno, il giorno 13, gli aerei angloamericani avevano scaricato ancora una volta tonnellate di bombe e di spezzoni incendiari, lasciando a terra una ventina di morti e cumuli di macerie ovunque.

Sotto i bombardamenti si erano contati in totale tra il migliaio e le duemila vittime, ma accadde che i vivi - i sopravvissuti al massacro - abbandonarono le loro case per trovare riparo altrove, dove potevano. Ai primi di marzo, il capoluogo che all’inizio della guerra contava 120mila residenti, ne aveva perso 90mila, e in breve - come spettri che si aggirano tra le rovine, con i rifugi come unico riparo - nella città senza più linee elettriche, telegrafiche e telefoniche restarono appena in diecimila, tra gli impiegati e gli operai obbligati dalla legge a restare, e coloro che non sapevano dove andare o non avevano le forze per partire. Non c’erano luce, gas, acqua; e mentre si contavano i danni delle strade, delle ferrovie e del porto, era bloccata l’intera rete del commercio, delle attività produttive e dell’amministrazione pubblica poiché non c’erano più uffici, industrie, negozi, magazzini agibili.

Così come la popolazione, sfollarono verso i centri del Campidano e dell’interno anche le Poste, la Banca d’Italia e gli istituti di credito, interi reparti ospedalieri, la prefettura, il genio civile, i licei. Decine di migliaia di famiglie erano riparate nel Nuorese e nei paesi dov’era una stazione della linea ferroviaria, come Sinnai, Dolianova, Senorbì, Orroli, Mandas e Isili. Una moltitudine, tanto che il prefetto di Nuoro Gaetano Orrù con un telegramma del 6 marzo avvisò il governo e le altre prefetture dell’Isola che lo sfollamento di Cagliari aveva assunto «proporzioni di un vero sgombero, compresi uomini validi e mobilitati civilmente». Il prefetto, ha sottolineato lo storico Giampaolo Salice, smentiva le stime ufficiali che per la provincia di Nuoro calcolavano 12mila sfollati, avvertendo che in realtà erano «circa 30 mila». Profughi che stavano «invadendo», oltre a comandi militari e uffici, «anche le più remote abitazioni».

Rifugi che, a Nuoro come in tutti i paesi e le città invase, oramai non bastavano più, e per questo sia il prefetto Gaetano Orrù che i rappresentanti di governo delle province di Cagliari e Sassari diedero ordine perché gli uomini abili al lavoro rientrassero a Cagliari e tornassero alle proprie occupazioni. In pratica si cercò di limitare l’accoglienza degli sfollati solo alle donne e ai bambini, ma le disposizioni prefettizie non furono eseguite. D’altronde non c’erano uffici, industrie, laboratori artigiani, negozi, magazzini dove gli uomini abili al lavoro potessero tornare. 

I bombardamenti del 31 marzo e del 13 maggio avevano finito per cancellare, in una città deserta, quel poco di vita civile ch’era sopravvissuta. Le Poste chiusero e ripararono ad Assemini, la Banca d’Italia a Gesturi, gli istituti di credito e tutta la rete commerciale cittadina tra Samassi e i centri vicini. Interi reparti ospedalieri furono trasferiti nella provincia, e lasciarono Cagliari anche i medici specialisti che riaprirono i loro ambulatori nei paesi del Campidano. La prefettura finì tra Lunamatrona e Villamar, l’Intendenza di Finanza a Mandas, il Genio civile a Siddi, il Provveditorato alle opere pubbliche a Nuoro. Sfollarono anche le scuole: il liceo classico “Dettori” riavviò le lezioni a Mogoro e a Isili, a Solarussa era arrivato invece il liceo scientifico “Carlo Sanna”.

La vita, i traffici, i rapporti che fino a quel momento regolavano le reti burocratiche, amministrative, politiche e culturali di Cagliari erano calate nelle zone rurali, nei villaggi dove l’esistenza era ancora regolata da codici sociali antichi, e la quotidianità dei più era fatta di duro lavoro in campagna, di fame e privazioni. C’erano paesi senza acquedotto né fogne, dove ancora le famiglie più umili tenevano in casa la capra che dava il latte ogni mattina e dormivano in giacigli improvvisati.

È in questa nuova frontiera che, per lungo tempo, si stabilirono i cittadini di Cagliari, quelli delle classi più agiate (molti dei quali avevano riallacciato così antichi legami familiari e di parentela) e i popolani, gli impiegati e i maestri di scuola, i dottori e i commercianti. Almeno all’inizio non fu ovunque una convivenza pacifica. I Comuni, su ordine dei prefetti, imposero che laddove ci fosse stata anche una sola stanza non abitata, questa dovesse essere messa a disposizione di una famiglia di sfollati. Significava dividere pure il pane, e ben presto i cagliaritani cominciarono a guadagnarselo piegando la schiena nel lavoro in campagna, anche coloro che mai avevano avuto i calli sulle mani e le unghie sporche di terra.

Fu da quell’invasione di cittadini che, per molti paesi, arrivarono le prime avvisaglie di modernità. Furono tracciate strade, aperti cantieri per la costruzione di nuovi edifici e il restauro delle chiese, venne installato il telegrafo e riaperte linee ferroviarie dismesse. Molti ragazzi poterono frequentare il liceo, e i malati essere curati senza dover mettere le scarpe e l’abito della domenica per andare a Cagliari. Era nato un nuovo mondo, per gli sfollati e per chi, da un giorno all’altro, se li era ritrovati in casa.

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