Alzi la mano chi ci credeva. Pochissimi, infatti, alla vigilia degli Europei di Germania, in corso adesso senza l’Italia, erano spinti dall’entusiasmo e dall’ottimismo nell’ammettere che, alla fine, la Nazionale di Spalletti avrebbe ripetuto l’impresa che, due anni fa, la selezione di Mancini firmò in Inghilterra. Anzi, di più: a Wembley, nel tempio del calcio, contro i padroni di casa e sotto gli occhi del futuro sovrano e famiglia.

I motivi sono molteplici e, nonostante i vertici federali ripetano che sia il prezzo da pagare per il rinnovamento, c’è chi fa notare come una Nazionale che non oltrepassa la metà campo contro la Spagna, a lungo con la Croazia, sempre contro la Svizzera, sia impresentabile a prescindere dall’abito che indossa, cucito su misura di ogni singolo azzurro dai sarti di un’eccellenza internazionale come Giorgio Armani. In realtà che il tempo a disposizione sia poco lo sanno tutti, a cominciare dagli addetti ai lavori. Questi ultimi sono stati i primi a constatare come il rinnovamento non sia partito dai vivai, dai settori giovanili, ma che la strada intrapresa sia stata quella delle seconde squadre, ingombranti zavorre nei vari gironi della Serie C che oscurano in termini di visibilità partecipazioni importanti del calcio di provincia, annichilendone anche il sogno di ritornare a calcare palcoscenici più consoni.

L’abito, insomma, non fa il monaco. Ma, in questo caso, il monaco non è stato degno dell’abito. Perché, a parte uno strepitoso Gigio Donnarumma, che ha scongiurato a più riprese con le sue manone un’eliminazione che sarebbe potuta arrivare in anticipo rispetto alla Svizzera, si è visto ben poco. Altalenanti sono state anche le prestazioni del cagliaritano Barella, fresco di rinnovo contrattuale con l’Inter, anche se Nicolò ha l’attenuante di aver affrontato gli Europei reduce da fastidiosi problemi fisici e con la stanchezza di una stagione da incorniciare con i nerazzurri. Ma è proprio dalla leadership di Barella che si può e si deve ripartire. Anche Chiesa non è più quello degli esordi e, per indole e carisma, non vale di certo l’ex rossoblù. Se ora si vuole evitare la brutta figura di un terzo mondiale da guardare alla Tv, servono centrocampisti veloci di gamba e di testa (forse anche Spalletti non crede più in Jorginho, che in Nazionale non ne azzecca una dalla semifinale dell’Europeo anglosassone) e difensori che non regalino, pronti-via, il vantaggio agli avversari con topiche che non si vedono più neppure nei campi di Eccellenza. Se poi pure Di Marco svanisce nell’Ade, c’è proprio poco da fare.

Infine bisogna capire chi fa i gol. Zaccagni ha illuso una nazione intera, ma non è un attaccante e i gol per lui sono episodi, magari da incorniciare, ma pur sempre episodi. Eppure, alla prodezza del laziale con la Croazia, su assist di un Calafiori da monitorare, ha fatto da contraltare la totale abulia di Scamacca e Retegui. Il primo, che quest’anno ha contribuito a fare grandissima l’Atalanta, ha fatto rimpiangere Ciro Immobile. Al secondo, forse, sta larghissima pure la maglia del Genoa.

Spalletti ha dichiarato che resta per proseguire sulla strada del rinnovamento azzurro, su preciso mandato del presidente federale Gravina. Quest’ultimo è un dirigente vecchia scuola, che dà fede alla parola data: quella del ct, più che altro, deve essere stata la promessa di riportare gli azzurri ai Mondiali. Ma è giusto sottolineare che, in altri tempi, davanti a una serie di sconfitte così pesante, tutto il vertice federale e lo staff tecnico si sarebbero dimessi: non andare per la terza volta di fila ai mondiali sarebbe una vergogna difficile da cancellare, con l’unica attenuante, per Gravina, che la prima volta ci lasciò a casa l’asse Tavecchio-Ventura.

Non regge neppure il ricorso a coincidenze sfortunate. Era il 24 giugno anche quando l’Italia uscì dal Mondiale sudafricano del 2010 per mano della Slovacchia, con l’allora (e per poco ancora) cagliaritano Marchetti tra i pali. Quattro anni dopo, stesso giorno, ci pensò un altro (non rimpianto) rossoblù, Diego Godin, con l’Uruguay di Oscar Tabarez, a eliminare l’Italia di Prandelli. Ma tranquilli: il guaio di questa Nazionale non è la malasorte. E’ la mancata presa d’atto di non poter competere a certi livelli come accadeva un tempo. E chissà come e quando l’Italia del calcio tornerà a esaltarsi per il gioco della Nazionale. Un consiglio per salvare il salvabile però ci sarebbe e sta nelle cose: Spalletti ha fatto cose importanti in Italia e all’estero, vincendo trofei e gestendo situazioni intricate: i casi Totti alla Roma e Icardi all’Inter. A Napoli ha costruito un’armata invincibile. Tutto bello, tutto bene. Se non fosse libero Claudio Ranieri: l’Italia è un’orchestra stonata, con la sua esperienza, chissà, potrebbe compiere un altro miracolo dopo quelli di Cagliari. Staremo a vedere.

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