Matteo Messina Denaro «non è il Capo dei capi» e neanche è «l’erede di Totò Riina». È un mafioso stragista, «l’ultimo» di una stagione «finita», e custodisce «segreti inconfessabili». Le intercettazioni sono state fondamentali per stanarlo, eppure sono al centro delle polemiche politiche per un loro uso ritenuto improprio: ma «costituiscono un importantissimo e irrinunciabile strumento per la lotta alla mafia» e piuttosto che riformarle sarebbe sufficiente «fare funzionare le norme già esistenti», che puniscono le storture. Senza dimenticare che il ruolo dell’informazione «in un Paese democratico è quello del cane da guardia della democrazia».

Da Palermo a Cagliari

Da Palermo a Cagliari  -Magistrato antimafia di lungo corso, 64 anni, Luigi Patronaggio oggi è procuratore generale a Cagliari (si è insediato meno di un anno fa) ma in precedenza è stato procuratore di Agrigento, titolare di inchieste di rilievo nazionale tra cui le due che hanno coinvolto il leader leghista Matteo Salvini, all’epoca ministro degli Interni (è accusato di sequestro di persona e omissione di atti d’ufficio per aver impedito lo sbarco dei migranti a bordo di due navi), procuratore di Mistretta, sostituto dal 1992 al 1997 alla Direzione distrettuale antimafia di Palermo dove si è occupato, tra gli altri casi, dell’omicidio di padre Giuseppe Puglisi (mandanti ed esecutori scoperti e condannati), della latitanza di Totò Riina (era pm di turno la mattina dell’arresto, il 15 gennaio 1993), Leoluca Bagarella, Giuseppe e Filippo Graviano e Gaspare Spatuzza. Ha lavorato alcuni mesi con Paolo Borsellino, prima della bomba di via D’Amelio che uccise magistrato e scorta (compresa la giovane poliziotta Emanuela Loi di Sestu, 24 anni); come sostituto procuratore generale a Palermo ha istruito in Appello i processi a carico dell’ex presidente della Regione Salvatore Cuffaro e dell’ex senatore di Forza Italia Marcello Dell’Utri. Da anni sotto scorta, conosce Cosa Nostra, le sue dinamiche e le sue ramificazioni.

Luigi Patronaggio, procuratore generale di Cagliari (archivio)
Luigi Patronaggio, procuratore generale di Cagliari (archivio)
Luigi Patronaggio, procuratore generale di Cagliari (archivio)

Procuratore, chi è davvero Matteo Messina Denaro? È l’erede di Totò Riina?

«Non è il “Capo dei Capi” e non è l’erede di Salvatore Riina. È invece l’ultimo dei grandi protagonisti della stagione delle stragi del ‘92 e del ‘93 e della successiva strategia dell’inabissamento voluta da Bernardo Provenzano, successore di Riina. In questa sua duplice veste è depositario di segreti inconfessabili, capaci di mettere in imbarazzo uomini politici e rappresentanti delle Istituzioni. Era infine il capo indiscusso di Cosa Nostra della Sicilia occidentale».

È l’ultimo padrino o è stato sopravvalutato?

«Il personaggio, nonostante la grave malattia da cui è affetto, è un uomo di primissimo piano di Cosa Nostra che ha condizionato, e tutt’ora condiziona, la vita imprenditoriale e amministrativa di tutto il trapanese. Matteo Messina Denaro è titolare, attraverso una fitta rete di prestanome, di un numero elevato di attività imprenditoriali che vanno dalla grande distribuzione alimentare, all’edilizia, al ciclo del cemento fino allo sfruttamento delle energie alternative».

Totò Riina, il capo dei capi di Cosa Nostra (archivio)
Totò Riina, il capo dei capi di Cosa Nostra (archivio)
Totò Riina, il capo dei capi di Cosa Nostra (archivio)

Come ha potuto restare latitante per 30 anni a un passo da casa?

«Ha trascorso tre decenni di latitanza “dorata” perché ha potuto contare su una fittissima rete di fiancheggiatori di cui purtroppo fanno parte esponenti dell’imprenditoria, della borghesia e delle professioni e questo spiega il suo formidabile controllo sul territorio. Non mi spingo a sospettare di appoggi istituzionali, perché al momento non sono provati e odio la “dietrologia”, ma rilevo che fra la famiglia Messina Denaro e un noto politico trapanese, già sottosegretario di stato in un importante dicastero, condannato con sentenza definitiva per il reato di concorso esterno in associazione mafiosa, vi erano strettissimi e censurabili rapporti».

Matteo Messina Denaro (archivio)
Matteo Messina Denaro (archivio)
Matteo Messina Denaro (archivio)

La stagione delle stragi è davvero finita?

«Penso che la stagione delle stragi, intesa come attacco indiscriminato armato verso obiettivi anche civili, sia finita a causa della sconfitta dell’ala militare e stragista di Cosa Nostra. Non possono, purtroppo, escludersi attentati nei confronti di quei singoli rappresentanti della magistratura o delle forze di polizia che ancora rappresentano una “spina nel fianco” di Cosa Nostra».

Pensa anche lei che i mafiosi puntino alla cancellazione del 41 bis, il carcere duro? E cosa dovrebbe fare il Governo?

«L’abolizione dell’ergastolo ostativo e la rimodulazione del regime di cui all’articolo 41 bis dell’ordinamento penitenziario e dei permessi sono da sempre obiettivi dei condannati di mafia e materia di interlocuzione, più o meno lecita, fra loro e “pezzi” delle Istituzioni. Ora, a prescindere dai nobili principi professati dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, lo Stato non può abbassare la guardia e deve mettere in campo, pur nel perimetro disegnato dalle Alte Corti nazionali e internazionali, ogni idonea misura affinché non vengano messi in libertà soggetti che ancora costituiscono un pericolo per la società. Ricordiamoci delle parole di Giovanni Falcone: da Cosa Nostra si esce o con la collaborazione o con la morte». 

L'arresto di Bernardo Provenzano (archivio)
L'arresto di Bernardo Provenzano (archivio)
L'arresto di Bernardo Provenzano (archivio)

Recenti arresti hanno fatto emergere l’esistenza di una presunta Costituzione di Cosa nostra: una novità clamorosa, se vera. Ritiene sia attendibile?

«Non esiste alcuna “Costituzione” di Cosa Nostra, il vero è che gli “uomini d’onore” seguono da almeno 100 anni codici orali che si tramandano di padre in figlio. Questi codici tuttavia sono entrati in crisi a seguito del dominio dei corleonesi di Totò Riina e della sua brutale politica di eliminazione fisica di ogni dissenso, senza dire che il suo attacco allo Stato non è stato unanimemente accettato all’interno di Cosa Nostra».

Le intercettazioni sono state fondamentali per scoprire questa ipotetica Carta mafiosa e anche per stanare Messina Denaro. Ma il Governo vuole limitarle fortemente. Non si mettono a rischio le indagini sulla criminalità organizzata? Come si possono distinguere le intercettazioni rilevanti da quelle ritenute non rilevanti?

«Le intercettazioni di comunicazioni, sia telefoniche che ambientali, costituiscono un importantissimo e irrinunciabile strumento per la lotta alla mafia. Non si possono peraltro fare distinzioni fra intercettazioni per mafia e terrorismo, lecite, e “altre” intercettazioni, da ridimensionare o addirittura escludere. Proprio la vicenda di Messina Denaro ha insegnato come la mafia abbia affiancato alla tradizionale logica della violenza una politica di cooptazione basata sulla corruzione».

Si torna sempre al timore che i colloqui ritenuti non utili ai fini delle indagini finiscano sui giornali, ma spesso comportamenti non di natura penale possono essere comunque di rilevanza pubblica. C’è già una legge che prevede lo stralcio di colloqui non necessari, che però magari possono essere utili alla difesa. L’ulteriore stretta non rischia di danneggiare lo stesso indagato?

«La recente riforma Orlando sulle intercettazioni ha molto garantito il cittadino e la sua privacy, dettando stingenti norme sull’utilizzabilità delle sole conversazioni rilevanti ai fini delle indagini e altrettante severe norme sulla loro segretezza. La riforma peraltro ha avuto costi notevoli per l’organizzazione degli archivi informatizzati e per l’aggiornamento delle procedure. Non si capisce perché mettere mano a un’ulteriore riforma quando occorre fare funzionare quella già esistente, punendo tutti coloro – magistrati, avvocati, giornalisti - che violano il segreto delle comunicazioni per fini e interessi di parte».

I giornali pubblicano il contenuto degli atti depositati, quindi conoscibili. Dunque qual è il problema?

«Non va sottaciuto l’importante ruolo dell’informazione che in un paese democratico è “il cane da guardia della democrazia”. Anche in questo caso occorre rispetto delle regole e tanta deontologia da parte di chi scrive nell’interesse pubblico, abbandonando ogni spirito fazioso e di parte».

Il ministro Delmastro parla di misure deontologiche a carico dei giornalisti che non rispettino il divieto di pubblicazione delle carte, il cui dovere tuttavia è informare. E torna a cadenza regolare l’ipotesi che le Procure debbano diffondere le notizie ritenute di interesse solo tramite i comunicati stampa. Non è un modo per controllare l’informazione?

«Il decreto legislativo 188/021 ha demandato ai Procuratori della Repubblica, con il controllo dei Procuratori Generali, la gestione dei rapporti con la stampa imponendo una comunicazione scritta e limitata ai soli casi di interesse pubblico. La norma ha voluto porre argine a quei comportamenti dei magistrati, specie di quelli delle procure, volti a creare “canali preferenziali” con taluni “giornalisti amici”, talvolta anche con finalità di promozione della propria immagine e del proprio lavoro in aperta violazione del principio sulla presunzione di innocenza dell’indagato. A fronte di una comunicazione che risulterà sicuramente più “ingessata”, v’è da dire che l’aspetto della tutela del cittadino indagato appare preminente».   

Il ministro della Giustizia Carlo Nordio (archivio)
Il ministro della Giustizia Carlo Nordio (archivio)
Il ministro della Giustizia Carlo Nordio (archivio)

Il ministro Nordio ha sollecitato il Parlamento a non restare succube dei pm antimafia. Vede questo pericolo?

«Le parole del Ministro Nordio, che ha parlato del pericolo di un parlamento ostaggio dei pm, mi sono apparse eccessive anche nella forma oltre che nella sostanza. Se taluni pubblici ministeri hanno commesso abusi, che si proceda penalmente e disciplinarmente contro di loro. Il ministro peraltro è il titolare dell’azione disciplinare nei confronti dei magistrati. Ma non si possono lanciare accuse ingenerose nei confronti dei tanti pm che fanno onestamente il proprio lavoro».

Cosa pensa della separazione delle carriere?

«Sono personalmente contrario alla separazione, peraltro di fatto già esistente dopo la riforma Cartabia che ha limitato a una sola volta il passaggio da una carriera all’altra. Il problema è di carattere ideologico e politico, perché un pm che gode delle stesse garanzie costituzionali di autonomia, indipendenza ed inamovibilità spettanti ai giudici, e che in più dirige la polizia giudiziaria, spaventa i poteri forti e intoccabili. L’assetto ordinamentale del pm italiano – e spiace che molti non lo dicano – è molto apprezzato in Europa come un modello che garantisce efficienza, trasparenza ed indipendenza».

Il Capo dello Stato Sergio Mattarella (archivio)
Il Capo dello Stato Sergio Mattarella (archivio)
Il Capo dello Stato Sergio Mattarella (archivio)

Il Capo dello Stato Sergio Mattarella ha detto che l’indipendenza della magistratura è un pilastro della democrazia. Vede a rischio questa funzione?

«Il Presidente Mattarella è stato in questi difficili anni un faro per la democrazia di questo Paese. La sua attenzione costante all’indipendenza della magistratura - talvolta esercitata con ferma autorevolezza e ribadita anche in occasione dell’insediamento del nuovo Csm -   è la garanzia più alta per il cittadino che si viene a trovare di fronte alla macchina della Giustizia, vuoi in qualità di imputato, di parte offesa, ricorrente o resistente che sia. Come diceva il beato Livatino, “il magistrato oltre che essere deve anche apparire indipendente”. L’utente della giustizia non dovrebbe mai porsi la domanda su quali idee politiche abbia il suo giudice, o il suo pm, ma dovrebbe nutrire la serenità di trovarsi di fronte a un magistrato che opera rispettando le leggi e la Costituzione e che magari operi anche con un po’ di umana sensibilità».  

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