Nessuno scriverebbe più portatore di handicap o, peggio, handicappato. Seppure il termine resti in alcune pratiche burocratiche. Ma siamo sicuri che l’apparentemente inclusivo diversamente abile, molto in voga qualche anno fa, sia corretto e rispettoso? In fondo tutti siamo, in qualche ambito, diversamente abili da qualcun altro. E quel ragazzi speciali, che oggi va per la maggiore e di sicuro nasce da buone intenzioni tanto da essere utilizzato da alcune associazioni, definisce la realtà o è solo un eufemismo che la vuole ricoprire di lustrini accentuando comunque la differenza? Molte associazioni che lavorano per un cambiamento culturale sul fronte della disabilità e professionisti della comunicazione sociale operano da tempo sul fronte del linguaggio. Perché, si sa, le parole sono importanti e definiscono le cose. Ma la rivoluzione potrebbe partire dalla Sardegna dove è nata la proposta della Carta di Olbia, un sistema di regole deontologiche destinate ai giornalisti che hanno la grande responsabilità di veicolare un linguaggio corretto.

Un cammino accidentato - causa Covid - quello della proposta lanciata nel dicembre del 2019 nella città gallurese durante un corso di formazione organizzato dall’Ordine dei giornalisti della Sardegna e dall’associazione Giulia giornaliste Sardegna, rilanciata in un corso gemello a Cagliari nel giugno 2022 e infine messa nero su bianco da un gruppo di lavoro (composto dalle giornaliste di Giulia, Susi Ronchi, Vannalisa Manca e dall’autrice di quest’articolo, dalle rappresentanti delle associazioni Francesca Arcadu, consigliera Uildm, e Veronica Asara, presidente di Sensibilmente, e da Sara Carnovali, avvocata esperta nei temi che riguardano disabilità e diritti) e presentata ufficialmente al presidente nazionale dell’Ordine dei giornalisti Carlo Bartoli a dicembre. La proposta del gruppo sardo è stata accolta con interesse e si inserisce nella discussione sulla rivisitazione delle norme deontologiche che regolano la professione giornalistica.

Francesca Arcadu (Uildm) alla presentazione della proposta della Carta di Olbia (foto concessa)
Francesca Arcadu (Uildm) alla presentazione della proposta della Carta di Olbia (foto concessa)
Francesca Arcadu (Uildm) alla presentazione della proposta della Carta di Olbia (foto concessa)

Nel frattempo, nel recente congresso della Federazione nazionale della stampa (il sindacato dei giornalisti), è stata approvata una mozione sul linguaggio inclusivo relativo alle persone con disabilità che fissa alcuni punti importanti a partire dall’accessibilità dell’informazione (per esempio, con l’utilizzo di tutti quei sistemi tecnologici che favoriscono la comprensione degli articoli anche alle persone cieche e sorde), la rimozione degli stereotipi e la promozione di termini che riconoscono la dignità e i diritti delle persone con disabilità.

C’è un faro, per quanto riguarda il corretto linguaggio da usare, ed è la Convenzione Onu per i diritti delle persone con disabilità che l’Italia ha ratificato nel 2009 ed è la strada maestra alla quale le diverse iniziative si riferiscono. La convenzione definisce la disabilità come “risultato dell’interazione tra persone con menomazioni e barriere comportamentali e ambientali che impediscono la loro piena ed effettiva partecipazione alla società su base di uguaglianza con gli altri”. La disabilità non è quindi considerata una patologia ma l’effetto di un contesto ambientale e sociale. Tra gli obblighi degli Stati che hanno ratificato la convenzione c’è quindi quello di “accrescere il rispetto per i diritti e la dignità delle persone con disabilità” e combattere pregiudizi e stereotipi.

Le parole

Non più handicappati quindi, per fortuna, ma neppure diversamente abili o ragazzi speciali. Il modo più corretto di definire una persona con disabilità – in base alla convenzione - è persona (uomo, donna, ragazzo, bambina) con disabilità laddove al centro c’è la persona e non la sua disabilità, che peraltro dovrebbe entrare in un articolo solo se è funzionale a ciò che si deve raccontare. La proposta partita dalla Sardegna individua una serie di termini che sarebbero da evitare. Da “costretto su una sedia a rotelle” (che in realtà è uno strumento che consente alle persone di muoversi) a “affetto da autismo” (che non è una malattia). La disabilità è una condizione, che peraltro può riguardare tutti e che può essere a breve o lungo termine, non qualcosa contro cui “si lotta” o che “si sconfigge” (terminologia, quest’ultima, messa in discussione anche per i tumori). Ma oltre agli stereotipi c’è un’altra insidiosa trappola nella quale si cade frequentemente: è la narrazione del supereroe che avviene quando si dipinge una persona disabile come dotata di poteri eccezionali o straordinari. Stereotipo che spesso viene cucito addosso agli atleti paralimpici che vorrebbero giustamente essere raccontati per le loro imprese sportive, come tutti gli altri atleti. Come ha recentemente sottolineato Bebe Vio: «Ieri ci chiamavano handicappati, oggi si parla di inclusione, domani sarà la normalità».

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