Chi viene arrestato e poi dimostra la sua innocenza ha diritto a un indennizzo che ripari la ingiusta detenzione. Questo è un principio sacrosanto che talvolta, però, non viene applicato. Succede quando la persona arrestata ingiustamente col suo comportamento ha indotto in errore gli inquirenti che hanno deciso la custodia cautelare.

La Corte di Cassazione è di recente intervenuta sul ricorso di una donna di Bari che era stata arrestata per droga insieme al compagno convivente. In sostanza, il comportamento della donna successivo alla perquisizione del garage dove era stata trovata la droga, e dove successivamente ne era stata trovata altra nascosta in un’intercapedine, sarebbe strettamente legato al suo arresto.

La Corte nella sentenza che nega l’indennizzo alla donna fa una  premessa: per valutare se chi ha patito l’ingiusta detenzione vi abbia dato o concorso a darvi causa con dolo o colpa grave, il giudice di merito deve apprezzare, in modo autonomo e completo, tutti gli elementi probatori disponibili, con particolare riferimento alla sussistenza di condotte che rivelino eclatante o macroscopica negligenza, imprudenza o violazione di leggi o regolamenti, fornendo del convincimento conseguito motivazione che, se adeguata e congrua, è incensurabile in sede di legittimità.

Non solo: il giudice della riparazione, pur dovendo operare, eventualmente, sullo stesso materiale valutato dal giudice del processo penale, deve seguire un iter logico motivazionale del tutto autonomo, perché è suo compito stabilire non se determinate condotte costituiscano o meno reato, ma se queste si sono poste come fattore condizionante (anche nel concorso dell’altrui errore), alla produzione dell’evento detenzione; e in relazione a tale aspetto della decisione egli ha piena e ampia libertà di valutare il materiale acquisito nel processo, non già per rivalutarlo, bensì al fine di controllare la ricorrenza o meno delle condizioni dell’azione (di natura civilistica), sia in senso positivo che negativo, compresa l’eventuale sussistenza di una causa di esclusione del diritto alla riparazione.

Va precisato che è idonea a escludere la sussistenza del diritto all’indennizzo non solo la condotta volta alla realizzazione di un evento voluto e rappresentato nei suoi termini fattuali, sia esso in conflitto o meno con una prescrizione di legge, ma anche la condotta consapevole e volontaria i cui esiti, valutati dal giudice del procedimento riparatorio con il paramentro dell’id quod plerumque accidit, secondo le regole di esperienza comunemente accettate, siano tali  da creare una situazione di allarme sociale e di doveroso intervento dell’autorità giudiziaria a tutela della comunità, ragionevolmente ritenuta in pericolo.

La colpa ostativa al riconoscimento del diritto alla riparazione, è nella condotta che, pur tesa ad altri risultati, ponga in essere per evidente macroscopica negligenza, imprudenza, trascuratezza, inosservanza di leggi, regolamenti o norme disciplinari, causi una non voluta ma prevedibile ragione di intervento dell’autorità giudiziaria che si sostanzi nell’adozione di un provvedimento restrittivo della libertà personale o della mancata  revoca.

Nel caso di specie la Corte ha valutato diversi comportamenti colposi che impediscono il riconoscimento dell’indennizzo. Innanzitutto, la donna arrestata e poi assolta con formula ampia aveva sostituito la serratura e apposto un lucchetto alla porta del garage  dopo che gli inquirenti in sede di perquisizione avevano trovato un elevato quantitativo di hascisc e arrestato il suo convivente: questa condotta è stata ritenuta dimostrativa dell’improvvisa instaurazione di una relazione di fatto con il locale nel quale, nella successiva perquisizione, era stata trovata cocaina, in un’intercapedine. Secondo la Cassazione, questo comportamento, incauto e imprudente, ha avuto incidenza sull’arresto della donna.

Che, peraltro, in sede giudiziale è stata pure reticente: durante l’interrogatorio di convalida del fermo, davanti a un’intercettazione in cui diceva di aver cambiato la serratura cedendo alle insistenze del fratello del suo convivente (il quale temeva che gli inquirenti potessero in qualche modo introdurre elementi che aggravassero la posizione), forniva una diversa versione dei fatti omettendo ogni riferimento alla richiesta di terze persone e affermando che si era trattato di una scelta personale, riferendo elementi vaghi e contraddittori.

Ecco che “giustamente”, si legge nella sentenza della Cassazione, è stata individuata la colpa grave ostativa al riconoscimento dell’indennizzo: quei comportamenti hanno avuto rilievo causale rispetto all’adozione della misura cautelare.

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