Sono “cittadini di un Paese terzo che svolgono un’attività lavorativa altamente qualificata attraverso l’utilizzo di strumenti tecnologici che consentono di lavorare da remoto in via autonoma ovvero per un’impresa anche non residente nel territorio dello Stato italiano”.

La nuova categoria di lavoratori “nomadi digitali” è entrata ufficialmente nell’ordinamento giuridico italiano a marzo scorso, con il decreto “Sostegni-ter”. Un “nomade digitale” può entrare in Italia senza il nullaosta al lavoro, gli basta un visto d’ingresso, che gli consentirà di ottenere il permesso di soggiorno di durata di un anno (prorogabile per un ulteriore anno ed estendibile al proprio nucleo familiare), che viene rilasciato se si è in possesso di un’assicurazione sanitaria che copra tutti i possibili rischi.

Statistiche non ufficiali riportano che oggi nel mondo ci sono oltre 35 milioni di persone che si definiscono “nomadi digitali” e il numero è destinato a crescere rapidamente nei prossimi anni. Le principali motivazioni verso il lavoro da remoto e lo stile di vita da nomade digitale sono la maggiore libertà, la flessibilità, la possibilità di lavorare ovunque, di viaggiare o di potersi spostare altrove, cercando di avere un impatto il più possibile positivo per i territori e le comunità in cui ci si sposta.

Sono i dati e le considerazioni del secondo “Rapporto sul Nomadismo Digitale in Italia”, nato da un sondaggio internazionale realizzato a marzo dall’Associazione Italiana Nomadi Digitali (ente no profit presieduto da Alberto Mattei) - con il contributo di Airbnb - a cui hanno risposto oltre 2200 “remote worker” e nomadi digitali provenienti da Paesi diversi.

L’obiettivo di questo report – spiegano gli autori - è quello di comprendere quali siano le esigenze, le aspettative, le criticità, i servizi richiesti e indagare sugli aspetti decisivi e strategici per fare dell’Italia una destinazione attraente e ospitale per lavoratori da remoto e nomadi digitali.

Per i remote worker e i nomadi digitali intervistati, l’Italia è una destinazione attraente. Il 43% sceglierebbe il Sud e le Isole come destinazione privilegiata, il 14% località del Centro e solo il 10% il Nord.

Si punta sulle località di mare e quelle a stretto contatto con la natura, seguite dalle città d’arte e più in generale da tutti quei territori che vantano un patrimonio tradizionale e culturale di valore.

Bellezze naturali, storia, arte e cultura, cibo ed enogastronomia, clima e qualità della vita: sono gli attrattori e le motivazioni principali che spingono i remote worker a scegliere il nostro Paese.

Il 93% degli intervistati vuole soggiornare per periodi di tempo variabili in piccoli comuni e borghi dei territori marginali e delle aree interne.

A differenza dei vacanzieri o dei turisti tradizionali, i lavoratori “remoti” sono interessati a vivere esperienze di medio-lungo termine. Il 42% starebbe in Italia per periodi che variano da 1 a 3 mesi, il 25% da 3 a 6 mesi, mentre il 20% vorrebbe fermarsi per più tempo.

Un elemento interessante riguarda inoltre la possibilità di destagionalizzare i “flussi turistici”, rendendo maggiormente sostenibile l’offerta di prodotti e servizi (di accoglienza e ospitalità). Il 42% dei remote worker e nomadi digitali ha dichiarato infatti che viaggerebbe e si muoverebbe nei nostri territori durante tutto l’anno, indipendentemente dalla stagione, e preferiscono abitare in appartamenti, case in affitto, e bed&breakfast.

Gli elementi irrinunciabili che influenzano la scelta sono: la qualità della connessione a Internet, i costi della vita adeguati alle loro esigenze, le attività culturali e la possibilità di sperimentare le tradizioni locali.

Spiegano gli autori della ricerca che “se da una parte non è realistico pensare che i nomadi digitali possano reinventare completamente l'economia di un territorio, è interessante vedere come questi professionisti (oltre il 70% ) siano interessati e disponibili a prendere parte a eventi e progettualità che abbiano un impatto socio-economico sulle comunità locali che li ospitano”. Insomma, “molti professionisti che hanno scelto questo stile di vita sentono forte il bisogno di avere un impatto positivo”. A differenza dei turisti tradizionali, “i nomadi digitali non si limitano a soggiornare in una destinazione ma vogliono imparare qualcosa di nuovo su loro stessi e sul mondo che li circonda, restituendo alle comunità locali che li ospitano il valore che ne ricevono”. D’altro canto, “è importante che le comunità locali imparino a considerare i remote non come semplici vacanzieri ma come “abitanti temporanei” delle loro comunità e dei loro territori”.

Dunque, per attrarre questa categoria di lavoratori in Italia – secondo l’Associazione Italiana Nomadi Digitali bisogna: progettare un’offerta locale e nazionale uniforme e strutturata di prodotti e servizi studiati ad hoc. Sviluppare una comunicazione adeguata per informare e attrarre questo viaggiatore/lavoratore e trasmettere il potenziale che le destinazioni possono offrire in termini di autenticità, accoglienza, qualità della vita, esperienze uniche. Coordinare gli interventi di operatori pubblici e privati (sfruttando anche le opportunità legate al Pnrr), per creare un sistema di accoglienza e ospitalità distribuito su tutto il territorio nazionale che possa contribuire a una rivitalizzazione sociale e ridurre il divario economico e territoriale nel nostro Paese.

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