«Gianni Clerici, lo scriba: addio amico mio»
Secondo Luisanna Fodde dire che Gianni Clerici è stato il giornalista specializzato nel tennis più bravo, geniale, innovativo, moderno, colto, ironico e preparato è riduttivoPer restare aggiornato entra nel nostro canale Whatsapp
Gianni Clerici era per tutti "lo scriba”, perché ritenerlo il giornalista specializzato nel tennis più bravo, geniale, innovativo, moderno, colto, ironico e preparato era riduttivo. Per Luisanna Fodde, 64 anni, ex campionessa sarda assoluta negli anni 70 e docente di Inglese nella Facoltà di Studi Umanistici dell’università di Cagliari era soprattutto un amico. «Un rapporto di quelli veri, fatto di rispetto e affetto, di condivisione di passioni comuni».
Il tennis, certo, ma non solo. Anche le letture, gli studi. «Mi chiamava "professore”, oppure “collega” perché aveva tenuto un ciclo di lezioni nell’Università Statale di Milano. Lo diceva sorridendo: era un uomo generoso, un piacere trascorrere del tempo con lui. Sapevo che da tempo stava male, la notizia della sua morte, a 91 anni, a Bellagio qualche giorno fa, mi ha lasciato un vuoto come per tanti appassionati di sport e di letture , sportive e non solo».
Quando e come vi eravate conosciuti?
«Io lavoro nell’ufficio stampa del torneo di Wimbledon dal 1981. A quell’epoca i giornalisti italiani inviati a Londra in occasione del torneo erano pochi. Gianni Clerici era sempre presente, per “il Giorno prima”, per “Repubblica” dopo. E poi ci fu il periodo delle telecronache con Rino Tommasi sulla tv a pagamento. Ci davamo appuntamento ogni anno a Londra, capitava poi di scambiarci gli auguri per il Natale o i compleanni».
Gianni Clerici era un grande personaggio.
«Innanzitutto era un grande professionista. E per la carta stampata anche un innovatore. È stato il primo a scrivere i resoconti di una giornata a Wimbledon quasi tralasciando i risultati in sé, ma raccontando i personaggi, le storie, la vita, le emozioni che ci sono dietro un match. La cronaca d’altronde la fanno la tv e adesso il web, i giornali devono andare oltre, approfondire, raccontare, spiegare quello che succede. Clerici con la sua macchina da scrivere Olivetti è stato l’ultimo a convertirsi al computer collegato alle redazioni via modem ma è stato il primo a inaugurare l’attuale giornalismo sportivo. Ha scritto bene Stefano Semeraro su “La Stampa”, intere generazioni di giornalisti sono diventati tali seguendo il suo esempio, sognando di diventare come Gianni Clerici».
Qualche curiosità.
«Non si sedeva mai in sala stampa nei banchi riservati alla stampa italiana. Preferiva dividere gli spazi con i colleghi americani, si metteva vicino a Bud Cullins del Boston Globe, avevano probabilmente anche giocato a tennis insieme da giovani, erano molto amici».
E poi?
«Nei giorni di pioggia chiedeva il famoso Compendium, una sorta di librone sul quale sono annotati tutti i record del torneo di Wimbledon tipo il match sospeso più volte, quello più lungo e via dicendo. Tante volte mi ha coinvolto nelle ricerche, un divertimento».
Vizi oltre alle virtù?
«Gli piaceva molto essere coccolato, che si avesse un occhio di riguardo per lui. Mi chiedeva di accompagnarlo ovunque, facendo finta che avesse bisogno di un interprete mentre in realtà Gianni parlava benissimo l’inglese. Piccoli vezzi di una persona gradevolissima, sempre pronto a parlare con gli amici italiani che gli portavamo in sala stampa e che lo volevano conoscere. Anche con i bambini aveva sempre un atteggiamento bellissimo, gli piacevano tanto».
Nei suoi pezzi spesso c’erano anche i racconti di quel che gli accadeva durante la giornata.
«Rino Tommasi, suo partner in tv, lo chiamava dottor Divago e non solo per le telecronache fantasiose e geniali».
Così lei è stata citata più volte da Clerici su Repubblica.
«Sì. In tre occasioni. Altrettante sorprese».
La prima volta?
«Quando Zina Garrison, giovane tennista statunitense, nel 1990, sconfisse Steffi Graf. Durante una delle nostre chiacchierate gli avevo parlato di alcune mie ricerche universitarie sugli autori afroamericani, lui le citò proprio per spiegare le radici storiche e letterarie di una partita che non era evidentemente soltanto una sorpresa in termini di pronostico sovvertito, ma che aveva radile basi nelle imprese delle giocatrici e dei giocatori di colore come Althea Gibosn o Artur Ashe che erano stati capaci di superare quello che era un vero e proprio gap razziale. Si intitolò “ecco perché Zina ha battuto Steffi Graf”, che per inciso era una delle sue preferite».
La seconda?
«Mi citò per certi versi a sproposito, scrivendo che gli avevo procurato un biglietto per un suo amico al modico prezzo di 50 sterline. In realtà erano dei biglietti a pagamento a disposizione della stampa in numero limitato che venivano estratti a sorte: quel giorno toccò a lui e mi ringraziò pubblicamente su Repubblica, immeritatamente».
Infine?
«Io dovevo gestire i posti a sedere per i giornalisti nel campo numero tre dove giocava l’azzurra Sara Errani. Era il 2012: gli tenni un buon posto, anche in quel caso mi ringraziò su Repubblica, non avevo fatto altro che il mio compito istituzionale da ufficio stampa. Ma lui era fatto così: molto generoso verso chi voleva bene e sapeva che da me era ricambiato».
A Cagliari per la Davis?
«Venne solo una volta, nel 1990. Ricordo che scrisse su Repubblica una nota di colore sfuggita a tutti: dopo il punto della vittoria di Canè su Wilander, decisivo per il 3-2 finale dell’Italia, un socio del Tennis club Cagliari sparò dall’altoparlante la marcia trionfale dell’Aida e lui ne fu piacevolmente colpito tanto da raccontarlo nella cronaca».
La leggenda narra che non volle seguire le orme del padre industriale nel settore petrolifero.
«Verissimo. Preferì gli studi umanistici, si laureò con una tesi sulla storia delle religioni, se non ricordo male. Giocò a tennis a buoni livelli, partecipò anche ai tornei del Roland Garros e a Wimbledon dove arrivò al termine di un lungo viaggio alla guida di una Fiat 500 e si addormentò davanti ai cancelli chiusi: era domenica».
Con Wimbledon aveva un rapporto particolare.
«Era il suo torneo preferito, noblesse oblige. Era amico del curatore del museo, dove è citato come benefattore per aver regalato alcuni cimeli di cui era collezionista. Dalle letture nella biblioteca di Wimbledon è nato il suo libro “500 anni di tennis”, tradotto in tutto il mondo, che gli è valso l’inserimento nella hall of fame internazionale, l’unico italiano insieme a Nicola Pietrangeli».
Mancherà agli appassionati.
«Tantissimo. Era unico. Come persona e come professionista. Amava dividere i colleghi tra gli scrittori e gli statistici, lui che per dipingere il ritratto di un tennista o per raccontare il pathos di un incontro poteva anche tralasciare il punteggio finale».
I suoi eredi?
<Ha fatto scuola, questo è sicuro. Ma resterà unico, inarrivabile. Addio, caro amico mio».