La copertina del libro "Ad alta voce" di Massimo Mapelli
La copertina del libro "Ad alta voce" di Massimo Mapelli
La copertina del libro "Ad alta voce" di Massimo Mapelli

“Ad alta voce”: per raccontare il mondo, spesso in diretta. Massimo Mapelli, 55 anni, è un giornalista televisivo tra i più noti, volto del tg di La 7, e in un libro (edizioni Baldini e Castoldi, 498 pagine, 20 euro)  ha raccontato i suoi trent’anni di professione, quasi sempre in prima linea nei fatti di cronaca più importanti in Italia, Sardegna compresa. Un libro che è anche un atto d’amore verso una professione fantastica, oggi alle prese con una profonda trasformazione visto che sempre più persone, soprattutto i giovani, vogliono informarsi attraverso il telefonino snobbando, spesso inconsapevolmente, giornali e tv.

Massimo Mapelli (foto concessa da Massimo Mapelli)
Massimo Mapelli (foto concessa da Massimo Mapelli)
Massimo Mapelli (foto concessa da Massimo Mapelli)

“Ad alta voce” racconta anche un modo diverso di fare giornalismo, come le grandi inchieste legate a temi ambientali come la situazione delle calotte polari al Nord e al Sud del mondo, dove i cambiamenti climatici si vedono prima e in tutta la loro drammaticità. Un libro che può fari innamorare di questa professione tanti giovani così come è capitato a Massimo Mapelli fin da suoi esordi a Bari.

Vita da giornalista. Massimo Mapelli, come è nata questa passione?

«Sui banchi di scuola. L’interesse per le materie umanistiche negli anni del liceo classico si è sovrapposto al desiderio di essere informato sulle cose per una innata curiosità caratteriale. Ho intrapreso il percorso consapevole delle grandi difficoltà di accesso alla professione».

Hai cominciato come esperto di musica: come sei diventato un inviato di cronaca e responsabile delle cronache di uno dei più importanti telegiornali nazionali?

«Le esperienze alla radio, con le private a livello locale e poi alla Rai con l’esperienza bellissima di Rai Stereo Notte, mi hanno consentito di rompere il ghiaccio. Superare il diaframma della conduzione in diretta davanti a un microfono. La musica è stato il primo amore, mi ha consentito di capire alcuni meccanismi fondamentali della professione. Intervistare personaggi come i Genesis, Peter Gabriel, Battiato o Ligabue è stata un’ottima palestra per affinare la tecnica e per mantenere un contegno professionale, malgrado l’entusiasmo e l’emozione che si provano quando si interagisce con stelle di quel calibro. Dopo gli anni alla Rai anche nei programmi di rete, lavorare in un telegiornale, a Tmc News/La7 ha comportato nel tempo dover affrontare la maggiore complessità dell’informazione televisiva. E lavorare in cronaca mi ha messo di fronte gradualmente a grandi fatti, anche dolorosi. Nei primi anni mi sono guadagnato sul campo “i galloni “ da inviato. Il lavoro come responsabile vicario del servizio di cronaca per La 7 è arrivato successivamente. Si tratta di due modi complementari di lavoro che bisognerebbe a mio avviso conoscere bene entrambi».

Massimo Mapelli in Groenlandia (foto concessa da Massimo Mapelli)
Massimo Mapelli in Groenlandia (foto concessa da Massimo Mapelli)
Massimo Mapelli in Groenlandia (foto concessa da Massimo Mapelli)

Molto conosciuti sono i tuoi documentari nell’Antartide e nell’Artide: come è stato toccare con mano i cambiamenti climatici?

«Girare in Antartide e in Artide è stata una esperienza indimenticabile. Ai poli estremi del mondo i cambiamenti climatici si manifestano prima di estendersi al resto del pianeta. La ricerca scientifica ha un ruolo fondamentale per capire in anticipo ciò che accade e che accadrà. Purtroppo questo prezioso patrimonio di conoscenze non si traduce in politiche climatiche condivise a livello internazionale e gli effetti, ad ogni latitudine, sono oggi sotto gli occhi di tutti.  Il Global Warming non è una teoria astratta. Produce già conseguenze distruttive a livello climatico e antropico nelle regioni dell’Artico che rischiano di diventare presto epicentro di nuove crisi diplomatiche e militari nella corsa alle risorse naturali e per la prospettiva di nuovi scenari nel commercio mondiale dovuti allo scioglimento parziale dei ghiacciai».

Il ruolo dei giornalisti al seguito di disastri come i terremoti.

«Nel corso degli anni ho dovuto occuparmi sul campo di alluvioni, disastri ferroviari, terremoti. L’esperienza più lunga e impegnativa è stata senza dubbio a L’ Aquila fino al successivo vertice del G8.  Occorre dedizione, intelligenza, sensibilità, equilibrio, perché si entra in contatto con il dolore di intere comunità e si entra e si esce rapidamente dalle vite delle persone in momenti terribili della loro esistenza. Credo che l’esperienza sia l’unica bussola in grado di guidare i passi di un inviato al lavoro per una testata giornalistica autorevole».

Il caso del delitto di Meredith Kercher: è stata fatta piena giustizia? Quando si muovono le diplomazie oltre alla magistratura, si può arrivare a pensare che la giustizia non sia uguale per tutti?

«Ho seguito il delitto di Perugia dall’inizio alla fine. Esempio di caso di cronaca nera da prima pagina che poi si trasforma in vicenda giudiziaria lunga e controversa, con molteplici piani narrativi. Un giallo dalla valenza internazionale per l’origine della vittima e di quella che mediaticamente era considerata la principale imputata. L’ultima sentenza di assoluzione, ampiamente motivata in Cassazione, è apparsa giuridicamente incongruente rispetto a quella di condanna “in concorso” nei confronti dell’unico dei tre imputati che ha scontato la pena in via definitiva, sia pure dopo il rito abbreviato. Difficile rispondere. Certamente la durata e l’esposizione mediatica della vicenda hanno contribuito a concentrare in quel caso interessi e pressioni diplomatiche da cui il sistema giudiziario dovrebbe, almeno in teoria, essere immune».

Come inviato in Sardegna hai seguito diversi casi. Quello del suicidio del giudice Luigi Lombardini e il delitto di Peppino Marotto a Orgosolo. Cosa ti hanno lasciato quelle storie, umanamente e professionalmente?

«Girare in Sardegna è bellissimo e complesso al tempo stesso. Hai citato due storie intricatissime e giornalisticamente ricche di interesse. A livello di metodo la cosa più sbagliata sarebbe stata pretendere risposte immediate, perché c’era in entrambe le situazioni una sovrapposizione di fattori storici, territoriali, culturali, oltre che giudiziari in senso stretto. Da un lato c’era la necessità di informare tempestivamente, dall’altra quella di approfondirli per cercare innanzitutto di comprenderne il contesto. Credo che questo sia stato il lascito più importante.  E a conti fatti ha fatto crescere personalmente un grande interesse per ciò che sia Lombardini che Marotto, figure molto diverse, hanno rappresentato. E per le motivazioni all’origine di questi fatti».

Attentati alle torri gemelle di New York e a Charlie Hedbo: la minaccia del terrorismo è ancora forte oggi?

«La percezione della minaccia terroristica negli ultimi anni è stata solo offuscata dalla pandemia e dalla guerra in Ucraina. Sul piano internazionale è evidente che abbiamo assistito alla chiusura di una stagione geopolitica a vent’anni di distanza dagli attacchi di New York a Ground Zero con la conclusione repentina della campagna militare in Afghanistan e l’operazione che nelle scorse settimane ha portato all’uccisione del leader di Al Qaeda Al Zawahiri. Un fatto che da un lato rappresenta la chiusura di un cerchio, ma al tempo stesso mostra che gli scenari sono molto cambiati. In questa fase, gli apparati di intelligence occidentali sembrano maggiormente concentrati nel contrasto al cyberterrorismo».

La pandemia da Covid ha cambiato per sempre il mondo?

«Di sicuro la pandemia ha interrotto la spensierata libertà di spostamento attorno al mondo, con effetti destinati a durare ancora anni.  Ci ha costretti a modificare i nostri comportamenti e ad affrontare conseguenze sanitarie, economiche e politiche. Chi ha perso genitori, parenti, amici e colleghi a causa del Covid ne sarà segnato per tutta la vita.  La conseguenza più duratura è quella di aver intaccato in modo difficilmente rimediabile le nostre certezze più radicate».  

La guerra in Europa: il conflitto potrebbe allargarsi e diventare mondiale?  

«La Guerra Mondiale a pezzi, come ha detto il papa, si combatte già da tempo. Previsioni di questo genere è impossibile farne. La guerra in Ucraina si è già trasformata in conflitto quantomeno nel medio periodo. Tutto dipenderà dai nuovi rapporti di forza sullo scacchiere mondiale».

Consiglieresti a un giovane di intraprendere nel 2022 questa professione?

«Alle prime presentazioni del libro ho incontrato diversi giovani o aspiranti giornalisti. Non mi sentirei mai di scoraggiarli a priori. L’importante è che siano consapevoli delle enormi trasformazioni in atto nell’editoria e delle difficoltà ancora maggiori di accesso qualificato alla professione rispetto al recente passato. Il precariato è sempre esistito. Ma il giornalismo aveva un obiettivo di approdo, una riconoscibilità e una funzione che adesso vengono fortemente messe in discussione. Non di meno, per garantire un futuro alla professione giornalistica occorrono le menti dei millenials in grado di adattarsi alle nuove piattaforme e di contribuire con le loro idee a nuove soluzioni. E di affinare gli strumenti per demistificare il rischio crescente delle fake news.  La carta stampata come l’abbiamo conosciuta ha davanti a sé un percorso difficile. La specializzazione qualificata è probabilmente una delle possibilità per garantirgli una vita ulteriore. Ma si passerà attraverso un ridimensionamento dei modelli attuali che del resto va avanti ormai da tempo. Anche la tv generalista e l’informazione tradizionale delle testate non ha davanti a sé un percorso illimitato. Nessuno sotto i trent’anni si informa attraverso il telegiornale, seduto su un divano a guardare la tv. Bisogna tenerne conto immaginando gli scenari futuri».

Quali capacità deve avere un inviato?

«Un inviato deve avere la capacità di capire ciò che accade, deve farlo con la velocità sempre maggiore imposta dall’era del Tempo Reale. Rispetto al passato in molti casi corre il rischio di non essere considerato come un valore aggiunto anche a causa dell’influenza del social media che contribuisce a spostare sempre più velocemente il baricentro della gerarchia rispetto alle grandi notizie. Sempre più spesso, purtroppo, i fatti nell’informazione on line si costruiscono attorno a delle parole chiave in tendenza sul momento. Una sorta di realtà parallela. Lavorare nel desk in redazione nel ruolo di coordinamento dei colleghi o dei servizi è sicuramente meno eccitante. Ma contribuisce in modo importante al lavoro di squadra che è alla base di un prodotto giornalistico credibile. Nel bagaglio professionale dovrebbe esserci la capacità di occuparsi delle notizie anche in quel modo».      

L’Italia va al voto a settembre:  il ruolo dell’informazione in questa campagna elettorale estiva. I dibattiti tv saranno importanti come in passato o lo scontro ha come teatro web e social?

«La campagna elettorale estiva ha imposto a tutti i protagonisti di affidarsi maggiormente ai social e al web. Chi assisterebbe sotto l’ombrellone, o comunque in vacanza ad una “tribuna politica” sia pure con le modalità dei talk all’insegna della “par condicio”? Certo le applicazioni consentono di seguire molti contenuti sui dispositivi mobili. In realtà per raggiungere il massimo numero di potenziali elettori occorrono entrambe le cose. Credo che i media tradizionali recupereranno terreno soprattutto nelle ultime tre-quattro settimane prima del voto quelle che coincideranno con la piena ripresa delle attività produttive e del ritorno nelle città.  Tutti i canali televisivi principali si sono già attrezzati in questa direzione».

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