Viaggi della salute, della speranza, pellegrinaggi sanitari: mille modi per chiamarli, ma tutti sono accomunati da un elemento, quello della malattia.

Dalla Sardegna migliaia di persone varcano il mare per raggiungere centri di eccellenza nella penisola – o anche all’estero – per trovare una cura, per avere un secondo parere. E sono tanti quelli che si rivolgono all’Istituto di Ricovero e Cura a Carattere Scientifico di Candiolo, nel Torinese, di cui è direttore sanitario il dottor Piero Fenu. 63 anni, origini a Banari (Sassari), laureato in Medicina e Chirurgia nel capoluogo piemontese.

La Sardegna è la sua tappa fissa almeno quattro volte l’anno, in particolar modo proprio il piccolo paese dal quale i suoi genitori emigrarono: «Un posto accogliente, a misura d’uomo, ho tanti amici lì, sono visceralmente legato all’Isola».

Nel suo lavoro ha avuto occasione di incontrare tanti sardi, per dare qualche dato: «In media in un anno abbiamo circa 500 pazienti che arrivano dall’Isola, di questi un centinaio sono i ricoveri, il resto accessi per visite. Un numero che è in aumento e non considera gli emigrati che vivono quindi in altre regioni».

Per quali patologie in particolare?

«Colonrettali o della mammella, ma questo non significa certo che la Sardegna faccia registrare una particolare incidenza. Sono in generale i tipi di tumore più diffusi tra la popolazione».

Ha memoria di qualche storia in particolare?

«Un paziente sardo, che è con noi da qualche anno, con un tumore otorinolaringoiatrico, ed era arrivato dopo aver ricevuto una prognosi infausta a breve termine. Bene, sono passati 7 anni e periodicamente viene a fare i controlli. Sono sempre molto contento di rivederlo, i nostri professionisti hanno fatto un grande lavoro. Ma ci sono tante altre vicende di sardi che vengono per cercare una “second opinion” per aggrapparsi alla speranza e vedo che rispondono bene alle terapie».

Seguite in qualche modo anche le famiglie dei malati?

«Cerchiamo di fare in modo che gli oneri per chi viene qui per curarsi non siano insostenibili. Ad esempio rilasciamo buoni pasto gratis, per il ristorante interno, per pazienti e accompagnatori. In più abbiamo delle convenzioni con strutture residenziali in cui sono disponibili delle camere per le quali non viene richiesto un compenso al paziente. E ancora altre convenzioni con alberghi a prezzi modici. Non esiste comunque un limite temporale, se il paziente ha un iter clinico complesso può rimanere quanto è necessario».

C’è un altro cognome sardo fra i vostri dirigenti.

«Sì, il direttore amministrativo: Salvatore Nieddu, genitori di Silanus».

Quanti dipendenti ha l’Istituto?

«Siamo una struttura dove coesistono la clinica e la ricerca, in tutto abbiamo intorno ai 750 operatori fra assistenza e ricercatori. C’è un unico edificio con laboratori, degenza, ambulatori, settore grandi tecnologie – radioterapia, medicina nucleare, radiodiagnostica -, quello chirurgico, per citarne alcuni». 

Avete macchinari particolari?

«Una piattaforma di chirurgia robotica, che permette interventi meno demolitivi rispetto al passato con dimissioni precoci e un ritorno più veloce alle attività socio-familiari».

Ci sono stati grandi progressi negli ultimi cinque anni?

«A livello di chirurgia, in particolare quella mini invasiva si è affermata moltissimo, anche quella laparoscopica e laserchirurgica, modi per cercare di agire sulla massa tumorale risparmiando i tessuti circostanti con vari accorgimenti e tecniche».

Che peso ha l’aspetto psicologico per voi nei confronti del paziente?

«È fondamentale, si tratta di curare persone che hanno ricevuto una diagnosi terribile, i tumori sono collegati mentalmente all’incurabilità e alla morte, per fortuna non è più così ma è normale un trauma psicologico. Quindi l’ambiente deve essere umanizzato con personale disponibile e solidale rispetto alla malattia, è importante avere dei professionisti della psiche. Abbiamo infatti il servizio di psicologia attivo con tre professionisti che prendono in carico i pazienti o su loro espressa volontà o quando, durante l’iter clinico, il medico si accorge di qualche problema e propone la consulenza di uno psicologo. Il disagio va contrastato con garbo, solidarietà, gentilezza e comprensione costante nel rapporto con i pazienti ma anche attraverso gli psicologi che sono i più adatti a interagire per reperire le risorse mentali che consentano di affrontare il percorso».

Le liste d’attesa sono una nota dolente anche da voi?

«Nel nostro caso riusciamo – avendo solo oncologia – ad avere attese congrue rispetto all’urgenza della patologia, un malato oncologico deve essere trattato celermente, è indispensabile».

Come direttore sanitario quali sono le criticità più frequenti da rilevare?

«Il Covid poteva rappresentare un enorme rischio per i pazienti oncologici, per questo abbiamo messo in atto misure di prevenzione particolarmente rigide grazie alle quali abbiamo, tra l’altro, offerto “ospitalità” ad Asl che avevano dovuto chiudere dei reparti e ad esempio non potevano svolgere interventi chirurgici. Le abbiamo ospitate nelle nostre sale. Il coronavirus insomma è stato una palestra importante».

Qual è il vostro elemento di eccellenza?

«Un modello gestionale che integri la ricerca. Mi spiego: abbiamo medici e ricercatori, il paziente riceve un trattamento personalizzato sulla base delle analisi genetiche del proprio tumore, a livello terapeutico viene inserito in un protocollo anche sperimentale adatto alle sue caratteristiche cliniche».

Collaborazioni internazionali?

«Diverse. Facciamo parte di un network con società scientifiche, spesso abbiamo ospiti internazionali, congressi e meeting, un interscambio continuo». 

Quanto è importante invece la prevenzione?

«Estremamente importante. Si dice con un’espressione apparentemente scorretta che sia la miglior cura, invece consente di poter evitare un gran numero di patologie, o quanto meno sorprendere il tumore quando è ancora curabile».

Prevenzione primaria, secondaria e terziaria: cosa significano?

«Nella primaria rientrano l’attenersi a stili di vita salubri, moderare gli alcolici, non prendere troppo sole, niente lampade abbronzanti, non lavorare in ambienti malsani o in cui sussistano inquinanti cancerogeni. Nella secondaria individuare il tumore in una fase precoce: quando effettuiamo una colonscopia – ed è importantissimo farla periodicamente – o una mammografia di screening, l’obiettivo è proprio quello di individuare il tumore in uno stadio iniziale, quello in cui gli interventi possono dare i migliori risultati, con più possibilità di guarigione. Consiglio quindi di rispondere sempre allo screening quando chiama la Asl, un esame può salvare la vita. Infine la terziaria riguarda i pazienti che hanno già avuto un tumore e devono evitare recidive, con uno stile di vita salubre, un po’ di attività sportiva, niente fumo, bere alcol con moderazione».

Settore ricerca, siete a livelli di grande rilevanza?

«Direi di sì, in particolare per lo studio della caratterizzazione molecolare della neoplasia. Ogni neoplasia si distingue per caratteristiche geniche e molecolari, si possono quindi creare delle terapie mirate e personalizzate. Inoltre c’è la parte di immunogenomica, ossia i rapporti fra cancro e sistema immunitario, l’obiettivo è quello di potenziare il sistema immunitario per renderlo più “intelligente”. E, ancora, l’intelligenza artificiale in particolare nel campo della diagnostica con progetti destinati a individuare sistemi di diagnosi che attraverso un sistema computerizzato di dati ci orienti nell’accuratezza diagnostica in maniera superiore alla diagnosi soggettiva di un individuo. In altre parole: in un computer ci sono migliaia di dati, analizziamo una radiografia e il computer sa se in quel caso il prosieguo diagnostico porterà a un tumore».

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