Da agosto l’Afghanistan è in mano ai talebani. Quattro mesi di terrore per milioni di persone e anche per Sherbaz Rezai, l’allevatore che ha trovato rifugio a Villasor quando, quindici anni fa, gli estremisti islamici hanno messo una taglia sulla sua testa. «A Kabul vivono mia moglie e i nostri quattro figli. Ho paura per la loro vita, se si può chiamare vita un’esistenza fatta di soprusi, diritti negati, fame, libertà negata». Sherbaz si è posto un obiettivo: «Portare in salvo i miei cari, magari a Villasor dove tutti mi conoscono e dove ho un lavoro come servo-pastore».

Ma l’iter burocratico sembro lungo e tortuoso come la fuga con mezzi di fortuna che lo vide protagonista nel 2007 attraverso Iran, Turchia e l’ex Jugoslavia: «Ho chiesto, grazie all’aiuto di alcuni amici al ministero degli esteri e alla Prefettura, il ricongiungimento familiare in Italia. Per adesso la risposta è stata negativa anche perché mi mancava un requisito fondamentale: la cittadinanza. E in questi giorni ho ufficializzato la richiesta: sono un profugo scappato dall’Afghanistan per motivi politici e per salvarmi la vita. Qui ho un lavoro regolare, una residenza, un datore di lavoro e tanti amici pronti ad aiutarmi. Ormai Villasor è casa mia».

La famiglia di Sherbaz Rezai rimasta in Afghanistan (foto concessa da Sherbaz Rezai)
La famiglia di Sherbaz Rezai rimasta in Afghanistan (foto concessa da Sherbaz Rezai)
La famiglia di Sherbaz Rezai rimasta in Afghanistan (foto concessa da Sherbaz Rezai)

La storia di Sherbaz è drammatica. «La mia vita in Afghanistan era tranquilla, in un villaggio nella periferia di Kabul, Arghandi Bala. Mio padre era meccanico, io lo aiutavo nell’officina, poi mi sono formato una mia famiglia, ho sposato mia moglie Laili e ho cominciato a svolgere la professione di tassista. Avevo una casa, persino un orto, tutto sommato le cose andavano bene, sino a quel maledetto giorno».

Sherbaz Rezai al lavoro nell'ovile di Villasor (foto Paolo Carta)
Sherbaz Rezai al lavoro nell'ovile di Villasor (foto Paolo Carta)
Sherbaz Rezai al lavoro nell'ovile di Villasor (foto Paolo Carta)

Premessa. Sherbaz è di religione musulmana ma non è un estremista, si capisce parlando con lui anche solo un minuto, oppure incrociando il suo sguardo pieno di fiducia nei confronti del prossimo, è una persona pacifica e tollerante come tanti islamici, a differenza di quei tre talebani che un giorno salirono sul suo taxi a Kabul: «Mi hanno detto di portarli in un posto non lontano dalla città, poi, durante il tragitto, sotto la minaccia di una pistola, pretendevano che li accompagnassi nelle montagne attorno a Kabul. Avevo capito che stavano trasportando nelle loro borse armi e soldi, ho provato a disarmarli, è cominciato l’inferno».

I tre giovani talebani hanno deciso in pochi secondi di uccidere quel tassista ai loro occhi ribelle e infedele: gli hanno sparato in faccia, l’hanno lasciato per strada esanime, convinti di averlo trucidato. Invece no, il pastore di Villasor è rimasto due mesi in coma ma è sopravvissuto. Ha subito diversi interventi chirurgici per la ricostruzione del viso perché uno dei proiettili gli aveva frantumato la mascella e adesso parla con fatica comunque in italiano. Quando è tornato in casa, ha guardato in faccia la moglie e i figli e la decisione è stata unanime e immediata: «Sono scappato dall’Afghanistan, ero finito nella lista nera dei talebani».

Il viaggio verso l’Europa, in camion ma anche a piedi, attraverso Iran, Grecia e Balcani, l’ha pagato caro: «Undicimila dollari». Adesso vorrebbe fare altrettanto per mettere in salvo i sui cari: «Ma il regime talebano ha praticamente chiuso le frontiere. Mi dicono che ci sono file di chilometri di persone alle frontiere verso Pakistan e Iran. I nuovi passaporti sono concessi solo per gravi motivi di salute. E non ho contatti sicuri per garantire i miei cari un viaggio tranquillo verso Villasor».

Non resta che la via istituzionale. Sherbaz confida che, una volta ottenuta la cittadinanza italiana, la Farnesina possa aiutare in qualche modo il ricongiungimento della famiglia Rezai in Sardegna. «In questi mesi l’Afghanistan è piombato di nuovo nel terrore. Sono in qualche modo in contatto con mia moglie e i miei figli, i negozi sono chiusi, i generi alimentari carissimi, la vita vale davvero poco. Sono riuscito a mandare ai miei famigliari del denaro, ma mio figlio maggiore è stato rapinato per la strada: lo avevano seguito, la disperazione porta a questo e ad altro».

Sherbaz Rezai con il suo datore di lavoro Efisio Raccis (foto Paolo Carta)
Sherbaz Rezai con il suo datore di lavoro Efisio Raccis (foto Paolo Carta)
Sherbaz Rezai con il suo datore di lavoro Efisio Raccis (foto Paolo Carta)

Così nell’azienda agricola in località Santu Mianu, lungo la strada che da Villosor porta a Monastir, Sherbaz vive, lavora, prega e soprattutto spera che la burocrazia gli faccia questa grazia: «Sono in pena, per quando tempo riusciranno i miei familiari a sopravvivere in quelle condizioni a Kabul?».

© Riproduzione riservata