Che fosse particolare, per certi versi strano - nel suo ambiente, pur rispettandolo, lo consideravano un po’ bizzarro -, lo si sapeva da sempre. Da quando Pietro Aglieri era stato “iniziato” nella famiglia di Santa Maria del Gesù, una delle più importanti di Palermo. Ma è il giorno del suo arresto, il 6 giugno 1997, che sorprenderà tutti. Nel covo di fondo Marino, poco fuori dall’abitato di Bagheria, oltre alle stanze e alla cucina, gli agenti della squadra “Catturandi” scoprono una vera e propria cappella con altare, crocifisso, acquasantiera, ostensorio, incensiere, paramenti sacri di colore verde e viola e alcuni banchi con gli inginocchiatoi. Nella casa, anche una libreria stracolma di testi filosofici, teologici, e diverse immancabili edizioni dei Vangeli e della Sacra Bibbia.

La notizia fa il giro del mondo. Aglieri d’altronde era già finito sulla prima pagina del quotidiano inglese “The Guardian”, che lo definì “astro nascente” della mafia siciliana e personaggio tra i più influenti d’Italia del 1996. In Sicilia si fiondano decine e decine di inviati delle maggiori testate giornalistiche internazionali, tutti interessati a scoprire i dettagli di una storia criminale dagli insoliti contorni religiosi. Aglieri, classe 1959, maturità classica (raggiunta con il massimo dei voti), studi nel seminario di Monreale, non dava certo l’idea del rozzo picciotto di Cosa nostra. Tutt’altro. Lo chiamavano ‘U signurinu”, per sottolinearne l’eleganza (vestiva abiti su misura con tessuti ricercati) e il portamento. Si esprimeva in un italiano colto e, soprattutto, il suo modo di apparire lo mostrava lontano anni luce dallo stereotipo del mafioso.

Al contrario, invece, uccideva, tramava e organizzava attentati – per quello di via D’Amelio dove morirono il giudice Paolo Borsellino e gli agenti della scorta sarà condannato all’ergastolo – rappresentando appieno la sua “mafiosità”. Era stato introdotto nel clan di Santa Maria del Gesù da Giovanni Bontate (chiamato l’avvocato per la sua laurea in Giurisprudenza) che ne era diventato il capo dopo aver dato le dritte per far uccidere il fratello Stefano (soprannominato “il principe di Villagrazia”) dai sicari di Totò Riina, il boss dei boss. Aglieri era intelligente e ambizioso, capì che per scalare i vertici criminali bisognava darsi da fare nell’unico modo conosciuto ai tempi del regno corleonese: ammazzare il prossimo. Che, nel 1988, era Giovanni Bontate. Quest’ultimo era stato condannato a morte da Riina perché durante il maxiprocesso di Palermo, il giorno dopo l’uccisione di Claudio Domino, un bambino di 11 anni, parlando dalle gabbie degli imputati e rivolgendosi ad Alfonso Giordano, disse: <Signor presidente, noi non c' entriamo niente con questo omicidio. E' un delitto che ci offende e ancor di più ci offende il tentativo della stampa di attribuirne la responsabilità agli uomini processati in questa aula. Anche noi abbiamo figli>. In pratica, l’ammissione dell’esistenza di Cosa nostra, sempre negata dai suoi appartenenti. E’ la motivazione della sentenza emessa dal giudice Totò Riina, la cui esecuzione sarebbe stata affidata ad Aglieri in quanto uomo di fiducia del boss. ‘U signurinu si presentò nella residenza del capo alle 9 del mattino con altri due uomini, ad attenderli Giovanni Bontate e sua moglie Francesca Citarda, entrambi ancora in vestaglia che si apprestavano a fare colazione. Lui preparava il caffè e l’altra poggiava dei biscotti sul tavolo, convenevoli stroncati dai colpi di pistola dei sicari. Era il 28 settembre del 1988.

Pietro Aglieri, ad appena 29 anni, divenne capo della famiglia di Santa Maria del Gesù che per più di mezzo secolo era stata retta dai Bontate, il padre Paolino (famoso in Sicilia per aver schiaffeggiato un consigliere regionale che non aveva fatto quanto gli era stato ordinato), Stefano e Giovanni. Le gerarchie di Cosa nostra erano state stravolte dai corleonesi che della tradizione se ne fregavano abbondantemente. Nei tre giorni che seguirono si contarono altri 13 morti. La “mattanza” voluta da Riina e dai suoi fedelissimi, tra cui il cognato Leoluca Bagarella e Giovanni Brusca, non sembrava aver mai fine. In realtà si concluse a metà degli anni Novanta con l’arresto di quasi tutti i bossi.

Aglieri, in carcere, si iscrisse alla facoltà di Lettere, con indirizzo religioso, della Sapienza. Il primo esame, in Storia del Cristianesimo, fu un 30 e lode con i complimenti dei professori. Quindi, inviò una lettera a Pierluigi Vigna, allora Procuratore nazionale antimafia, proponendo che venisse consentito un “confronto tra i boss detenuti alla ricerca di soluzioni intelligenti e concrete”. In quel periodo le carceri erano sotto pressione e le proteste all’ordine del giorno. La proposta venne respinta. Un’altra volta Aglieri fece sapere di voler dissociarsi da Cosa nostra in cambio di una condizione di vita migliore tra le patrie galere. Anche stavolta non venne ascoltato.

© Riproduzione riservata