Era l’alba del 15 aprile di trentacinque anni fa. L’economista Federico Caffé era un bastione keynesiano in tempi di neoliberismo, maestro del futuro premier Mario Draghi che con lui si laureò con la tesi su “Integrazione economica e variazione dei tassi di cambio”. Uscì per l’ultima volta dalla casa di via Cadlolo, a Roma. Nessuno notò quell’uomo esile, alto appena centocinquanta centimetri (diceva: «la befana mi ha portato in una calza piccola») che aveva formato generazioni di economisti. Si negò al mondo rifugiandosi in un monastero? Fu rapito? Decise di farla finita lontano da ogni sguardo? Sul suo destino fiorirono leggende che rinverdiscono ad ogni anniversario della scomparsa.

La storia

Pescarese di nascita, Caffè nel dopoguerra fu segretario particolare e capo di Gabinetto di Meuccio Ruini, ministro della Ricostruzione del governo Parri. Insegnò per trent’anni Politica economica e finanziaria alla facoltà di Economia e commercio dell’Università La Sapienza e divenne un ascoltato consulente dell’Ufficio studi di Bankitalia, strenuo difensore dello stato sociale. Malauguratamente una serie di tragedie funestò gli ultimi anni della sua vita: la morte della madre e quella della tata che lo aveva cresciuto, la scomparsa di tre amatissimi allievi (Ezio Tarantelli, assassinato dalle Brigate Rosse nell’85, Fausto Vicarelli, morto in un incidente stradale, Franco Franciosi, stroncato da un tumore). Quando l’età lo costrinse a lasciare la cattedra agli amici confesso di non riuscire a scrivere e di avere amnesie sempre più frequenti: «Io non sono un uomo, sono una testa. Se quella arrugginisce, di me non resta più niente».

Le indagini

Antonio Del Greco, ex funzionario di polizia della settima sezione della squadra mobile di Roma, raccontò anni dopo all’Agenzia giornalistica Italia: «Ricordo che ci alternammo con le altre sezioni della Mobile a turni di sette ore per rintracciarlo. La palazzina da dove si era allontanato il professor Caffè si trovava al confine della riserva di Monte Mario, all’epoca c’erano meno edifici di oggi e la zona era ancora più impervia. Ci siamo messi alla sua ricerca nel parco con l’aiuto dei cani e anche di elicotteri dall’alto». Ancora: «Quello che ci sorprese è che Caffè si fosse allontanato da casa senza portare via nulla: sulla scrivania vennero ritrovati gli occhiali da vista, le chiavi di casa e l’orologio. Impossibile ipotizzare che si fosse potuto allontanare di molto da casa, per questo lo si cercò soprattutto nell’area vastissima del parco. Le ricerche si estesero anche al Tevere, le barche della polizia seguirono il corso delle acque fino alla secca di via Marconi e poi giù fino a Fiumicino, al mare». La conclusione: «Andarono avanti per giorni ma senza esito, nessun indizio. Del resto, non emersero elementi per pensare che ci si trovasse davanti a un omicidio e anche sull’ipotesi del suicidio rimasero perplessità visto che non si è mai ritrovato il corpo».

Che fine ha fatto?

Ermanno Rea, autore de L'ultima lezione sulla vita e la scomparsa di Caffè, in un’intervista sostenne che qualcuno conoscesse la verità e non la volesse raccontare: «Poco importa se sia finito suicida o in un convento: resta solo la natura oscura ch’egli ha voluto imprimere al suo distacco».

C’è un dettaglio che fa riflettere. A Torino, quattro giorni prima della sua scomparsa, si suicidò Primo Levi. Pur colpito, Caffè criticò il modo plateale e straziante usato dallo scrittore per togliersi la vita. Commentò: «Che brutta maniera di uccidersi, farsi trovare così dai parenti». Pensò di fare la stessa scelta di Levi con maggiore riservatezza?

Il Tribunale di Roma, con sentenza del 30 ottobre 1998, ha dichiarato la morte presunta di Federico Caffè.

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