Il più famoso è sicuramente Joaquin Archibald Guzman Loera, conosciuto con il nomignolo di El Chapo (il basso). Le sue rocambolesche evasioni da istituti di massima sicurezza messicani, le camicie sgargianti, le foto con Sean Penn hanno fatto parlare molto e a lungo. Senza dimenticare la classifica di Forbes che per alcuni anni ha visto il capo del cartello di Sinaloa nell’elenco degli uomini più ricchi del mondo con un patrimonio stimato tra gli 8 e i 14 miliardi di dollari, naturalmente derivanti dal traffico di sostanze stupefacenti (in prevalenza, cocaina, eroina, marijuana e metamfetamine) in ogni angolo del pianeta. Ora Guzman è in un supercarcere americano del Colorado dove sta scontando l’ergastolo. Dovrà risarcire gli Usa con 12,6 miliardi di dollari.

Prima di lui, la scena criminale messicana era tutta per Amado Carrillo Fuentes, noto come El Senor del los cielos (il signore dei cieli), chiamato così per via della flotta aerea messa in campo per trasportare la cocaina dalla Colombia fino agli Stati Uniti (decine di bimotori, jet e alcuni Boeing 727 acquistati nell’asta fallimentare di una compagnia africana). Grande corruttore, teneva in pugno alti funzionari della polizia federale e dell’esercito, oltre che politici di rilievo. Il boss del cartello di Juarez rischiò di cadere in disgrazia dopo l’uccisione, nel corso di una sparatoria, del cardinale Posadas Ocampo all’aeroporto di Guadalajara nel 1993. Approfittò della situazione indicando, grazie ai suoi rapporti privilegiati, El Chapo quale responsabile della morte del prelato (in realtà, l’auto di Posadas Ocampo venne scambiata per quella di Guzman e crivellata di colpi di pistola dai sicari del cartello dei fratelli Beltran Leyva). Carrillo Fuentes in un sol colpo si liberò del suo principale competitor (El Chapo), che venne arrestato poco tempo dopo, e strinse un’alleanza con i Beltran Leyva. Il boss morì nel 1997 in seguito alle complicazioni dell’ennesimo intervento di chirurgia estetica che doveva cambiargli le sembianze.

Ancor prima del Senor de los cielos e di El Chapo, il padrone del traffico di droga in Messico era indiscutibilmente Miguel Angel Felix Gallardo, l’uomo che creò la “Federacion”, l’organizzazione che comprendeva tutte le bande locali, in modo da controllare le città di frontiera per far scorrere senza problemi i fiumi di cocaina e marijuana senza scontri per il territorio. El Padrino, siamo negli anni Ottanta, si guadagnò i buoni uffici degli Stati Uniti perché fornì la logistica, e anche risorse finanziarie, ai contras nicaraguensi. In pratica, i camion carichi di droga che entravano impunemente negli Stati Uniti ritornavano in Messico con armi e denaro da consegnare ai ribelli che cercavano di spodestare i sandinisti al potere. L’accordo con la Cia e con il governo americano consentì a Felix Gallardo di far prosperare gli affari. Fu lui a imporre ai colombiani l’accordo che modificherà da allora le gerarchie nel mondo del narcotraffico internazionale: la metà del prodotto in arrivo in Messico sarebbe stato dei messicani che poi avrebbero pensato alla vendita al dettaglio. Una rivoluzione. Il passo successivo, cioè creare una rete di spaccio nelle città americane, è stato quasi un gioco grazie alla presenza di messicani praticamente ovunque, specie in California, Texas, New Mexico e Arizona. Sembrava che l’impero del “padrino” non conoscesse ostacoli. I capi della “Federacion”, Rafael Caro Quintero, Ernesto Fonseca Carrillo, Pablo Acosta Villareal, giusto per citarne alcuni, navigavano letteralmente nell’oro. Ville da mille e una notte, collezioni di auto sportive, un’ostentazione del lusso esagerata. La polizia chiudeva tutti e due gli occhi in cambio di mazzette, lo stesso facevano i governatori e l’esercito, insomma, tutto filava liscio. Sino a che un testardo agente della Dea, ufficio di Guadalajara, tal Enrique “Kiki” Camarena Salazar, che non accettava soldi né era disposto a chiudere anche un solo occhio, scoprì l’esistenza del “ranch Buffalo”, nello stato di Jalisco, una maxi piantagione di marijuana di oltre 1.000 ettari che rendeva circa 8 miliardi di dollari all’anno. L’esercito messicano distrusse il raccolto causando un danno enorme ai trafficanti. Che si vendicarono sequestrando Kiki Camarena e torturandolo per lunghissime ore prima di abbandonare il cadavere nei pressi di una strada, dove venne trovato quasi un mese più tardi.

La reazione degli Stati Uniti non si fece attendere. Con operazioni mirate in territorio messicano agenti della Dea e dell’Fbi arrestarono tutti i responsabili. Compreso Ruben Zuno Arce, nipote di un potente politico di Città del Messico, proprietario della villa dove venne nascosto e ucciso l’ostaggio, e il medico che iniettava amfetamine a Camarena per tenerlo sveglio e prolungarne l’agonia. Questo avveniva nel 1985. Felix Gallardo rimase libero per altri quattro anni poi anche lui dovette arrendersi. Condannato a 40 anni, è ancora detenuto all’Altiplano, carcere messicano di massima sicurezza.

Tre boss, o jefe come li chiamano da quelle parti, con un unico comune denominatore: il Sinaloa. Da lì è partita la modernizzazione del traffico di droga ed è ancora qui, in questo stato sul versante del Pacifico, che continua. I sinaloensi hanno conquistato il Messico, resistito ai vari attacchi dei tanti gruppi o cartelli che volevano sostituirli, e sono sempre loro a dettar legge. Il “jefe de jefes” oggi è Ismael “El Mayo” Zambada Garcia, 73 anni e mai un giorno di prigione alle spalle. Anche lui, manco a dirlo, sinaloense, non ha mai amato apparire, anzi, ha preferito tenere un basso profilo al contrario di El Chapo. Gli osservatori americani e messicani ritengono che sia sempre stato il capo, il vero punto di riferimento del Cartello di Sinaloa e che Guzman fosse il suo secondo. Di sicuro sulla sua testa pende una taglia da 15 milioni di dollari, appena triplicata dal governo statunitense. Che qualcuno la incassi è piuttosto difficile. Di El Mayo ci sono pochissime foto, che peraltro risalgono a qualche decennio fa, e, stando ad alcuni informatori, avrebbe anche subito un intervento di chirurgia plastica facciale. Tanto per complicare le ricerche che, in verità, facili non lo sono mai state.

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