Mike Pence, per quattro anni, non se l'è filato quasi nessuno. Per i vicepresidenti Usa è già difficile finire sotto i riflettori in condizioni normali, figuriamoci se alla Casa Bianca comanda una personalità ingombrante come Donald Trump. Neppure quando gli è stata affidata la guida della task force anti-Covid è riuscito a conquistare la prima fila mediatica: il presidente si è preso la scena trasformando le conferenze stampa sull'epidemia in un nuovo genere di comizi personali. E quando ha smesso di farlo, è stato l'infettivologo Anthony Fauci a bucare il video. Suona piuttosto ironico che Pence sia finito al centro dell'attenzione generale proprio negli ultimissimi giorni del suo mandato, protagonista passivo e involontario del blitz dei trumpiani al Congresso (lui era lì per sancire l'ufficialità dell'elezione di Joe Biden), e poi tirato per la giacca perché rimuovesse il suo "capo" con la procedura prevista dal 25esimo emendamento alla Costituzione. Paradossalmente ha guadagnato molta più notorietà la nuova vice Kamala Harris, ancor prima di entrare in carica: ma non sorprende, essendo la prima donna in quel ruolo. E data l'età avanzata di Biden potrebbe diventare anche la prima donna presidente, prendendo il suo posto in caso di malattia grave o come candidata dopo un solo mandato. Subentrare è del resto la vocazione primaria dei vicepresidenti, un ruolo per certi versi ingrato: per quel che ne sa, la gente ti vede più che altro come un panchinaro di lusso, fermo ad aspettare un'occasione. Alle origini dello Stato federale in effetti era così: addirittura i primi vice erano i candidati che si classificavano al secondo posto nella votazione presidenziale effettuata dal collegio dei grandi elettori. È accaduto quindi che il presidente e il suo potenziale sostituto sostenessero politiche opposte, come nel caso dell'antifederalista Thomas Jefferson nominato vice del federalista John Adams. L'inconveniente fu corretto col 12esimo emendamento, che separò le due nomine, e poi si arrivò al sistema del ticket. Oggi invece può capitare che il vice debba sobbarcarsi un grande lavoro, sebbene oscuro: a volte più concentrato sull'amministrazione vera e propria, su dossier specifici. Altre volte sulla mediazione politica, che per il presidente di turno può risultare decisiva. Infatti il numero due ha il compito di presiedere il Senato, e vota solo in caso di parità (eventualità non rara, per come è strutturata la Camera alta) per decidere la controversia. Ma prima ancora di arrivare al voto, il vicepresidente gestisce solitamente quei rapporti politici con i senatori di entrambi gli schieramenti, che servono a costruire nell'assemblea i consensi necessari per far passare gli atti che stanno a cuore alla Casa Bianca. In cambio del suo impegno viene retribuito bene, ma non ricoperto d'oro: il suo compenso lordo annuale è di 235mila dollari, pari a circa 16mila euro al mese, poco più della metà della paga del presidente (400mila dollari). L'evoluzione del ruolo è ben descritta da un saggio del 2014 dell'analista politico Jules Witcover, non a caso intitolato "La vicepresidenza americana: dall'irrilevanza al potere". Secondo Witcover, fu la crescente complessità della società e dei problemi da affrontare che suggerì ai presidenti di delegare alcuni compiti ai loro "panchinari". Ma fu un processo molto lungo: Martin Van Buren, nel 1833, è stato il primo ad assumere un ruolo di affidabile consigliere del presidente Andrew Jackson. Eppure ancora un secolo dopo John Nance Garner, in carica all'ombra di Franklin Delano Roosevelt, descriveva in termini brutalmente volgari l'inutilità del suo ufficio ("non vale un bicchiere di piscio caldo"). La personalità dei singoli ha ovviamente avuto un peso: per esempio alla fine del XIX secolo Garret Hobarth esercitò un'influenza così forte sulla presidenza di William McKinley che il primo mandato di quest'ultimo fu descritto quasi come un consolato. Ma fino al 1919 nessun vice era ammesso alle riunioni del governo federale: l'onore fu concesso per la prima volta da Woodrow Wilson a Thomas Marshall. In oltre due secoli di storia, ovviamente, ci sono molte curiosità legate alle persone dei vicepresidenti. E anche a chi si limitò a sfiorare l'incarico: come Daniel Webster, considerato ancora oggi uno dei migliori oratori di sempre al Congresso, che per tre volte, a metà dell'Ottocento, cercò di diventare presidente senza riuscirci. Altre due volte invece il partito Whig gli offrì di candidarsi come vice, affiancando in un caso William Henry Harrison e nell'altro Zachary Taylor, ma Webster rifiutò sempre sdegnosamente una poltrona che riteneva poco rilevante: "Non intendo essere seppellito - disse - finché non sarò morto davvero". Senonché a morire furono invece, durante i rispettivi mandati, sia Harrison che Taylor: senza quei rifiuti, Webster sarebbe arrivato alla presidenza che tanto aveva cercato in altre occasioni.

Aaron Burr (riproduzione a uso libero dal sito di Wikipedia)
Aaron Burr (riproduzione a uso libero dal sito di Wikipedia)
Aaron Burr (riproduzione a uso libero dal sito di Wikipedia)

Ben più tragica la figura di Aaron Burr, terzo vicepresidente della storia, durante il mandato di Thomas Jefferson (inizi del XIX secolo). Burr, mentre era in carica, si macchiò addirittura di omicidio, e non di una persona qualunque: uccise in un duello con la pistola nientemeno che Alexander Hamilton, uno dei padri fondatori degli Stati Uniti, primo ministro del Tesoro nel governo federale. Un economista così importante che è ancora oggi uno dei soli due personaggi (l'altro è Benjamin Franklin) a venire effigiato su una banconota senza essere stato presidente. La rivalità politica tra i due nacque quando Burr vinse un seggio senatoriale contro il suocero di Hamilton, e durò per molti anni. Nel 1800, Hamilton con la sua autorevolezza fu decisivo nel convincere il collegio elettorale a scegliere come presidente Jefferson anziché Burr, descrivendolo come uomo senza scrupoli e in cerca di benefici personali. E quando nel 1804, ancora in carica come vicepresidente, Burr tentò di diventare governatore di New York, Hamilton scrisse cose pesantissime su di lui su un quotidiano di Albany. Inoltre diede giudizi ancora peggiori sul rivale in alcune conversazioni private; Burr ne venne a conoscenza e, non riuscendo a ottenere da Hamilton una marcia indietro, lo sfidò a duello. L'11 luglio 1804 i due si ritrovarono all'alba in un bosco del New Jersey: Hamilton, che riteneva di aver già salvato l'onore accettando la sfida, sparò per primo ma mancando volutamente il bersaglio. Burr invece rispose al fuoco centrando l'avversario nel petto. L'ex ministro morì il giorno dopo. Il suo assassino fu processato ma assolto (il duello era già una pratica vietata), ma la sua carriera politica finì lì. Disonorato, riparò in Europa salvo poi tornare molti anni dopo per sposare una ricca ereditiera. Ma l'amore durò poco e lei instaurò un'aspra causa di divorzio: il suo avvocato era Alexander Hamilton jr, il figlio dell'economista che Burr aveva ucciso. (1. Continua)
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