Se un dipendente, pubblico o privato, la circostanza non cambia, interrompe per una decina di minuti l’attività lavorativa alla quale è preposto, viene autorizzato dal datore di lavoro a lasciare l’ufficio per andare al bar a prendere un caffè, timbra il cartellino in uscita e nel tragitto di ritorno cade e si infortuna, ha diritto all’indennità di malattia e poi anche all’indennizzo per l’invalidità provocata dall’incidente?

Secondo il Tribunale di Firenze e la Corte d’appello della stessa città sì, secondo la Corte di Cassazione no. E siccome l’ultima parola spetta ai giudici di legittimità ecco che una dipendente pubblica non solo non otterrà un euro dall’Inail ma dovrà anche pagare le spese dei tre gradi di giudizio.

La vicenda, di recente finita su tutti i giornali, è legata alla sentenza con cui l’8 novembre scorso la Suprema Corte ha detto no a una lavoratrice che si è infortunata fuori dal posto di lavoro per un episodio accaduto dieci anni fa: dipendente del settore pubblico, lavorava negli uffici giudiziari della Procura della Repubblica presso il Tribunale di Firenze. Faceva orario continuato, dalle 9 alle 15, e a metà mattina, come facevano regolarmente tutti i dipendenti col benestare del capo-ufficio, aveva regolarmente timbrato il cartellino in uscita prima di andare nel vicino bar per una pausa con due sue colleghe. Nel tragitto di ritorno verso l’ufficio la donna era caduta provocandosi un trauma al polso destro che le ha impedito di lavorare per diverso tempo. Ecco perché in seguito a quell’incidente la donna aveva chiesto all’Inail la corresponsione di un’indennità di malattia per inabilità assoluta temporanea al lavoro e successivamente anche un indennizzo per aver subito un danno permanente pari al dieci per cento.

L’Inail si è sempre opposto davanti a quella richiesta ritenendo che alla donna nulla in realtà fosse dovuto e a quel punto la dipendente aveva fatto ricorso al giudice ordinario in sede civile. Ebbene: il Tribunale aveva accolto la richiesta della donna in quanto il rischio (legato all’uscita dall’ufficio) era comunque collegato all’attività lavorativa dal momento che la pausa era stata autorizzata dal datore del lavoro e l’uscita dalla sede pure, visto e considerato che nell’edificio non c’era un bar interno. In sostanza l’incidente, secondo il giudice civile di primo grado, era da valutarsi come accessorio all’attività lavorativa. La decisione del Tribunale era stata confermata dalla Corte d’appello che nel 2014 aveva respinto l’impugnazione dell’Inail.

Tutt’altro che soddisfatto da questa decisione l’istituto nazionale per l’assicurazione contro gli infortuni aveva presentato ricorso per Cassazione la cui sentenza, a sorpresa, ribalta dieci anni dopo i fatti quelle del giudice di merito: la lavoratrice non ha diritto a nulla perché il rischio è stato assunto volontariamente. Non solo: nell’esigenza di prendere un caffè non si possono ravvisare i caratteri del necessario bisogno fisiologico che avrebbero consentito di mantenere la stretta connessione con l’attività lavorativa.

Nell’accogliere le tesi dell’Inail la Suprema Corte ha sostenuto che è da escludere l’indennizzabilità dell’infortunio subito dalla lavoratrice durante una pausa al di fuori dell’ufficio dove prestava la propria attività e lungo il percorso seguito per andare al bar a prendere un caffè. In quel modo la donna si è volontariamente esposta a un rischio non necessariamente connesso all’attività lavorativa per un bisogno certamente procrastinabile e non impellente, interrompendo così la necessaria connessione causale tra attività lavorativa e incidente.

Ai fini della decisione la Cassazione valuta irrilevante la circostanza della tolleranza espressa dal datore di lavoro in ordine alla consuetudine dei dipendenti di uscire dall’ufficio per la pausa caffè di mezza mattina.

La Cassazione ha pure accollato le spese del giudizio di legittimità e dei due processi di merito in capo alla lavoratrice.

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