Aveva creduto fino in fondo nel dialogo interreligioso in una terra di frontiera, l’isola di Mindanao nelle Filippine. Un agguato ha spezzato il suo apostolato di pace, ma non il progetto. Trent’anni fa padre Salvatore Carzedda, missionario del Pime, cadeva sotto i colpi del killer che lo seguiva in moto assieme a un complice mentre tornava da un incontro tra cristiani e musulmani. Otto colpi di pistola sparati da distanza ravvicinata mentre era al volante del fuoristrada, a Zamboanga. Era il 20 maggio 1992. Il radicalismo islamico era realtà lontana nelle cronache del tempo. Non si parlava di Isis, Califfato, Al Qaeda. Nelle Filippine il movimento di Abu Sayyaf contro lo Stato a ispirazione cattolica sarebbe esploso poco più avanti, dopo aver compiuto i primi passi nel 1991. Ma padre Carzedda, originario di Bitti, dove era nato nel 1943, era ben consapevole dei rischi incombenti e anche della necessità di superare le divisioni con il dialogo, unico argine al doloroso conflitto tra cristiani e musulmani. Un impegno intenso e limpido maturato con gli studi teologici a Chicago e portato avanti nel movimento Silsilah che vuol dire catena, nome arabo che evoca l’unità. Nel 1990 il movimento era stato premiato dall’allora presidente delle Filippine, Corazon Aquino, con il Peace Award.

Negli anni passati il riconoscimento del suo martirio e dell’eroicità delle virtù cristiane del missionario sardo sembrava un orizzonte vicino. Papa Benedetto XVI, durante la sua visita a Cagliari il 7 ottobre 2008, lo aveva citato nel suo discorso chiamandolo come familiarmente continua a essere evocato a Bitti: Battore, versione in limba di Salvatore. In particolare aveva ricordato «Padre Battore del Pime che aveva dato la vita perché credenti di tutte le religioni si aprano a un dialogo sincero sorretto dall’amore». Nel 2000 monsignor Loris Capovilla, in occasione della beatificazione di Papa Giovanni XXIII, di cui era stato storico segretario, in un messaggio ai missionari del Pime, custodi della casa natale di Roncalli a Sotto il Monte, aveva richiamato “il venerabile Salvatore Carzedda”. Soprattutto aveva suscitato speranza l’iniziativa avviata a suo tempo dall’allora vescovo di Nuoro, Pietro Meloni, per raccogliere testimonianze sulla vita e sulle circostanze del martirio con il coinvolgimento di monsignor Carmelo Dominador Morelos, arcivescovo di Mindanao, per avviare il processo di canonizzazione. Il primo a parlarne pubblicamente durante i funerali era stato monsignor Giovanni Melis: «È più che legittimo dedurre che la morte del padre Carzedda è stata voluta in odium fidei, vale a dire per odio contro la fede. In tal caso, pur riservando il giudizio finale alla Suprema autorità della Chiesa, ci sembra di poter ragionevolmente affermare che padre Salvatore Carzedda sia un martire, avendo testimoniato la sua fede sino allo spargimento del sangue».

Padre Carzedda nelle Filippine (foto archivio L'Unione Sarda)
Padre Carzedda nelle Filippine (foto archivio L'Unione Sarda)
Padre Carzedda nelle Filippine (foto archivio L'Unione Sarda)

Nella tormentata isola di Mindanao il sacrificio di padre Carzedda si è inserito nella catena tragica segnata dalle croci di altri missionari del Pime, come padre Tullio Favati nel 1985 e padre Fausto Tentorio nel 2011, di sequestri e intimidazioni. Ma nonostante le condizioni di difficoltà il movimento di dialogo “Silsilah” va avanti, sostenuto dal siciliano padre Sebastiano D’Ambra che lo aveva fondato nel 1984. «Con padre Carzedda abbiamo iniziato il sogno della missione, siamo andati insieme nelle Filippine, abbiamo studiato insieme la lingua locale, incontrato la gente», ricorda il missionario che ha conservato un rapporto speciale con Bitti anche perché qui riposano le spoglie dell’amico ucciso. Nel 1977 arrivano assieme nell’isola di Mindanao.

«È stato sempre un ragazzo di pace, conciliante e di parola, di cui ci si poteva fidare, vicino alle famiglie e a quanti godevano o soffrivano», lo ricorda la sorella suor Lucia Carzedda, dell’ordine delle Figlie di Maria Ausiliatrice, che vive a Macomer. E aggiunge: «La notizia di 30 anni fa, alla tivù, ci aveva lasciato attoniti». E poi: «Siamo sempre vicino con l’affetto e la preghiera e auspichiamo la sua glorificazione anche su questa terra. Il suo sangue ha già perdonato i killers». Parole piene di calore e di fede risuonate nel santuario della Madonna del Miracolo a Bitti nella ricorrenza del 20 maggio quando, su iniziativa delle parrocchie, è stato presentato il libro “Padre Salvatore Carzedda dialogo e speranza” che raccoglie il lavoro di ricerca di don Celeste Corosu, elaborato finale del baccellierato in Teologia alla Pontificia facoltà teologica della Sardegna di Cagliari. «Oggi – sottolinea Corosu – il Silsilah è un faro che brilla e unisce persone cristiane, islamiche e anche di altre minoranze religiose, nonostante le difficoltà non smette di credere in un mondo dove regni la pace tra i popoli».

L'albero della pace a Bitti in ricordo di padre Carzedda (foto Orunesu)
L'albero della pace a Bitti in ricordo di padre Carzedda (foto Orunesu)
L'albero della pace a Bitti in ricordo di padre Carzedda (foto Orunesu)

L’impegno missionario di padre Carzedda di fatto continua, richiamando «l’esperienza – come l’aveva presentata lui stesso – di un dialogo a livello spirituale, basato sulla nostra fede. I cristiani sono guidati dal dialogo seguendo la loro fede, i musulmani seguendo la loro». Un messaggio fondamentale affidato anche a un libro dal titolo significativo, “Il Gesù del Corano alla luce del Vangelo. Alla ricerca di una via di dialogo”: senza annullare le differenze fa emergere l’invito a cristiani e musulmani a prendere sul serio il “Gesù dell’altro”. L’aveva scritto a Chicago dove era stato trasferito come formatore del seminario del Pime dopo la prima esperienza nelle Filippine. Lui frequentava la Catholic Theological Union e aveva conseguito la licenza in Missionologia. Tre anni di studio, dal 1986 al 1989, prima del ritorno nelle Filippine dove si sentiva a casa. «È solo nel dialogo che diventiamo noi stessi più ricchi e arricchiamo gli altri della nostra esperienza religiosa», scriveva. E poi: «I musulmani sul Nuovo Testamento e i cristiani sul Corano dovrebbero cominciare a fare i conti con una nuova comprensione di quanto i Libri sacri rappresentano. Entrambi sbaglierebbero ad abbandonare la sfida del dialogo e l’esperienza dell’incontro a causa delle incongruenze tra le due fedi. Il mio tentativo è invece quello di facilitare una nuova comprensione e un nuovo ascolto reciproco, senza livellare le differenze tra le tradizioni religiose».

«Battore è figlio del Concilio Vaticano II che apre al rapporto con le altre religioni, anche le non cristiane, fra cui l’islam. Con il Concilio il missionario non è più o non è soltanto uno che predica la Buona novella ma è uno che con i credenti di altre religioni prega lo stesso Dio», sottolinea Nando Buffoni, economista e amico personale del missionario, che ricorda le parole pronunciate nelle Filippine dai musulmani che lo avevano conosciuto: «È un martire anche per noi. Quelli che l’hanno ucciso hanno colpito e offeso lo stesso Dio che veneravamo con Salvatore».​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​

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