Molti anni dopo, di fronte alla corte che lo giudicava, il sottufficiale delle SS Oskar Groening si sarebbe ricordato di quel remoto pomeriggio del 1942 in cui capì che la sua colpa non l’avrebbe mai abbandonato. Come il colonnello Aureliano Buendìa di Cent’anni di solitudine, quel giovane tedesco sarebbe stato per sempre perseguitato dalla memoria del passato: ma per Groening si trattava della memoria dei propri crimini. È passato alla storia come “il contabile di Auschwitz”: era lui che registrava con cinica efficienza le valute e i beni preziosi che venivano sequestrati ai deportati quando arrivavano nel campo di sterminio. Non ha compiuto in prima persona alcun delitto di sangue, ma era un ingranaggio consapevole della gigantesca macchina di morte costruita dai nazisti. Il dolore per ciò che aveva fatto non è mai andato via, e chissà, forse lo tormenta ancora adesso, benché sia morto nel 2018. E ora sono cent’anni di rimorso: era nato un secolo fa, il 10 giugno 1921, in una piccola città della Bassa Sassonia.

La storia di Oskar Groening è terribile e affascinante perché racconta il nazismo della gente normale, la correità di una maggioranza silenziosa che non ha ideato le terribili atrocità che conosciamo, ma le ha in qualche modo permesse. Però racconta anche il percorso tortuoso del popolo tedesco per fare i conti con una responsabilità storica opprimente. Groening è morto da condannato, ma stava ancora aspettando di scontare la sua pena: era stato processato solo nel 2015, a 93 anni. Dallo smantellamento di Auschwitz ne erano passati 70. E a trascinarlo in tribunale, attaccato in condizioni malferme a un deambulatore, in definitiva è stato lui stesso.

Per decenni, dopo la fine della guerra, l’ex militare aveva condotto una vita normale, piccolo borghese. Un lavoro in una vetreria, dove fece carriera fino a diventare capo del personale. Una moglie che rispettò la sua richiesta di non fare domande sul periodo bellico. Era riuscito a stendere un velo sul suo coinvolgimento nell’orrore nazista, e nessuno l’avrebbe mai scoperto: fu proprio Groening a togliere quel velo, ormai in età avanzata. Verso la fine degli anni Ottanta iniziarono a circolare le teorie dei negazionisti dell’Olocausto; anche Oskar si trovò a discutere con alcuni di loro. Pare che la prima volta sia accaduto durante un incontro tra collezionisti di francobolli, il che fa un po’ sorridere. Sentir definire “un’invenzione” gli orrori che aveva visto con i suoi occhi, fece scattare qualcosa in quell’uomo ormai avviato verso una serena terza età. Lesse un libro del negazionista Thies Christophersen e poi rimandò la copia all’autore, con un proprio commento: “Io ho visto tutto. Le camere a gas, le cremazioni. Io c’ero”.

Da allora Groening divenne una delle voci ricorrenti in quel dibattito surreale. Conferenze, interviste, incontri nelle scuole. Spiegò cosa volesse dire fare il “contabile di Auschwitz”. Ammise di aver appreso subito dell’esistenza delle camere a gas e dei forni crematori, e di aver assistito a crimini efferati senza fare niente per fermarli. Come l’episodio che risale a quel famoso pomeriggio del 1942: un soldato sentì piangere un neonato nascosto dalla madre dentro una valigia, lo prese e lo massacrò senza pietà sbattendolo contro un camion. Dal giorno dopo Groening chiese di essere trasferito al fronte, ma fu accontentato solo verso la fine del conflitto.

Oskar Groening a 21 anni con la divisa delle SS (foto AP/Archivio US)
Oskar Groening a 21 anni con la divisa delle SS (foto AP/Archivio US)
Oskar Groening a 21 anni con la divisa delle SS (foto AP/Archivio US)

Orfano di madre, allevato da un padre ultranazionalista negli anni del Primo Dopoguerra, il giovane sottufficiale era sinceramente convinto che l’ideologia hitleriana potesse restituire alla Germania la grandezza perduta. Quindi non era in dissenso rispetto all’organizzazione dei campi di concentramento. Furono le crudeltà gratuite a fargli venire i primi dubbi. Quando divenne un censore pubblico dell’Olocausto chiese scusa al popolo ebraico, ma alcuni osservatori gli addebitarono un pentimento tiepido. Il valore del suo racconto, però, derivava dal ruolo di testimone oculare, a prescindere dalla presa di distanza personale dal nazismo.

Forse Groening parlò per liberarsi di una colpa pesantissima. Probabilmente confidava sul fatto che, dopo tanto tempo e in considerazione del suo ruolo nel lager puramente amministrativo, non sarebbe stato incriminato. Invece proprio la sua affermazione come personaggio pubblico portò a un processo clamoroso, aperto a Lüneburg nell’aprile 2015 e reso possibile anche dall’evoluzione della giurisprudenza tedesca, che nel 2011 aveva reso più ampio il concetto di complicità nei crimini di guerra. L’accusa lo chiamò in causa in particolare per l’uccisione di circa 300mila deportati ungheresi nel 1944. “Sono moralmente complice di quei delitti”, disse Oskar ai giudici all’inizio del processo: “Se lo sono anche legalmente, sta a voi deciderlo”.

Come parte civile e come testimoni intervennero decine di persone scampate alla ferocia nazista. Tra queste la romena Eva Kor, che ad Auschwitz, all’età di dieci anni, perse i genitori e fu sottoposta, con la gemella Miriam, agli esperimenti del dottor Josef Mengele. Rischiò di morire per le iniezioni che le facevano, ma riuscì a resistere fino alla liberazione del lager. In seguito visse con Miriam negli Stati Uniti e divenne una testimone di quella tragedia, ma teorizzando la necessità di perdonare i nazisti, per non restare prigionieri dei traumi subiti. Perciò, pur partecipando al processo Groening come parte civile, in una pausa dell’udienza si avvicinò all’imputato per concedergli il suo perdono. La foto dell’abbraccio tra i due fece scalpore e suscitò le reazioni negative di molti ex deportati, contrari a qualsiasi riconciliazione.

Eva Kor\u00A0(foto a uso libero da Wikipedia)
Eva Kor\u00A0(foto a uso libero da Wikipedia)
Eva Kor (foto a uso libero da Wikipedia)

In tribunale Groening descrisse le proprie responsabilità senza reticenze, e mostrò un rimorso che fu tenuto in considerazione al momento della sentenza. Dagli atti processuali il giovane sottufficiale delle SS non emerge come un mostro sanguinario: piuttosto il nazista della porta accanto, quello che avremmo potuto scoprire dentro ognuno di noi, se ci fossimo trovati a vivere nella Germania hitleriana. Una partecipazione non totale ma innegabile alla più assurda follia della storia, l’atteggiamento mentale che può spiegare i sorrisi spensierati delle cuoche di Auschwitz, degli inservienti, dei militari di quarta fila del campo, nelle foto scattate durante le gite nei giorni di riposo dal lavoro nel lager. Quelle immagini, in mostra a Berlino nella Topografia del Terrore (uno dei più importanti musei sul nazismo), stanno lì a ricordarci che, a seconda delle circostanze e dei condizionamenti, l’ignavia rischia di trasformare chiunque nello strumento più o meno involontario di enormi iniquità.

Il 15 luglio 2015 Oskar Groening fu condannato a quattro anni di carcere. Lui ormai ne aveva compiuto 94. Tra appelli, richieste di differimento della pena e domande di grazia, non entrò mai in prigione. La morte fu più rapida della punizione statale, e arrivò il 9 marzo 2018 a porre fine, almeno su questa terra, al suo rimorso eterno.

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