Live Aid: 40 anni fa il concerto per l'Africa che agli africani servì ben poco
Quello del 13 luglio 1985 fu forse l’evento pop più grande al mondo: decine di star della musica sul palco, 150 milioni di sterline di donazioni. Ma sulla fame in Etiopia – per cui nacque l’iniziativa – non poté inciderePer restare aggiornato entra nel nostro canale Whatsapp
Non se lo ricorda più nessuno o quasi, ma tutto parte dall’Etiopia e dal caso. Se Bob Geldof non fosse stato davanti alla televisione, quando nell’autunno del 1984 la Bbc trasmise un documentario sulla carestia nel Corno d’Africa, non ci sarebbe mai stato il Live Aid: forse il concerto più famoso della storia, di cui in questi giorni si celebra il quarantesimo anniversario. Andò in scena il 13 luglio 1985, e fu una manifestazione colossale articolata su due continenti: una parte dell’evento si svolse allo stadio Wembley di Londra, l’altra al JFK di Filadelfia. Ma ciò che lo rese unico fu il fatto che quasi tutte le più grandi star della musica del tempo accettarono di esibirsi gratuitamente, spesso in condizioni che non consentivano di valorizzare le loro performance, pur di contribuire allo scopo benefico dell’iniziativa.
Tutto partì dall’Etiopia, dunque, con quel filmato sulla denutrizione dei bambini nel nord del Paese che commosse Geldof, allora leader dei Boomtown Rats; e quindi sempre all’Etiopia tutto sarebbe dovuto ritornare. Ma non andò proprio così. A distanza di tanto tempo, ci si chiede ancora quale sia stata la reale utilità del concerto per le popolazioni africane che si volevano aiutare: le donazioni in denaro furono sicuramente molto abbondanti, si parla di circa 150 milioni di sterline di allora, una somma esorbitante (in buona parte dovuta, si ritiene, allo sfogo in diretta dello stesso Geldof: che durante la manifestazione, visto che le offerte attraverso il centralino telefonico della Bbc andavano a rilento, comparve in tv a dire “In Africa stanno morendo ora e voi dovete donare ora. Date ora i vostri soldi”). Ma ci sono pareri assai discordanti su quanto quella cifra servì davvero a contrastare la povertà e la fame.
La bambina simbolo
Dieci anni fa il Guardian rintracciò Birhan Woldu, la bambina etiope che, ripresa in quel famoso documentario quando aveva appena quattro anni, era diventata l’immagine simbolo delle operazioni benefiche degli artisti inglesi e americani, iniziate già alla fine del 1984 - sempre per la spinta di Bob Geldof - con la canzone “Do they know it’s Christmas”. Ormai 34enne, pur ringraziando gli organizzatori del Live Aid, Woldu disse che, nel suo Paese, la situazione non era cambiata granché. Non che ci siano dietro particolari storie di corruzione, almeno a quanto è dato sapere: pare che la gran parte delle offerte sia effettivamente andata a organizzazioni umanitarie attive nel continente africano, ma probabilmente ogni passaggio del denaro comporta “dispersioni” tali che anche una cifra così grande produce effetti poco significativi.
Semmai uno dei principali ostacoli, per simili raccolte di fondi, è stato storicamente il sistema fiscale: è rimasto celebre lo scontro tra George Harrison e i governi del Regno Unito e degli Usa, che non rinunciarono alle tasse sul concerto per il Bangladesh organizzato dall’ex Beatle nel 1971 a New York, capostipite dei live a scopo benefico. Forse proprio grazie a questo precedente, a Geldof era andata un po’ meglio con “Do they know it’s Christmas”: dopo aver inizialmente preteso l’Iva sulle vendite del disco realizzato dai maggiori artisti pop britannici, il governo di Margaret Thatcher aveva poi destinato i gettiti in beneficenza sull’onda delle reazioni negative della pubblica opinione.
Ci sono, per la verità, anche valutazioni meno negative sull’esito umanitario dell’operazione. Si sottolinea da più parti che il problema della fame in Africa era comunque di portata troppo ampia per essere realmente scalfito dal Live Aid, ma grazie ai fondi raccolti nel 1985 sono stati comunque finanziati importanti progetti di sviluppo e istruzione, in particolare proprio in Etiopia. Tra l’altro c’è chi, come Paolo Ghirlinzoni su Migmag, ha calcolato che, a fronte di un investimento attorno ai 12 milioni di dollari (il costo approssimativo dei concerti a Londra e Filadelfia), il ricavato è stato di oltre 12 volte superiore. Questo testimonia l’indubbio successo dell’evento, seguito da più di 160mila spettatori (paganti) nei due stadi ma soprattutto da un pubblico planetario impressionante: secondo alcuni conteggi un miliardo e mezzo di persone, secondo altri addirittura due miliardi e mezzo.
L’eredità
Quale che sia l’audience effettiva, è tale in ogni caso da non far apparire esagerato chi definisce storico quel concerto di 40 anni fa. Al di là dei risultati concreti, è stata pur sempre una testimonianza positiva la circostanza che, per aiutare le popolazioni africane, si siano messi a disposizione gratuitamente i più grandi cantanti e gruppi americani e britannici dell’epoca, dagli U2 a Madonna, da Bob Dylan a Elton John, e poi ancora Sting, i Rolling Stones, Stevie Wonder, i Duran Duran, i Dire Straits, Eric Clapton e l’elenco potrebbe continuare a lungo. Sono tanti gli aneddoti, ormai famosissimi, legati a quel 13 luglio 1985: l’esibizione straordinaria dei Queen con Freddie Mercury; Phil Collins che suona a Londra, poi salta su un Concorde e, approfittando del fuso orario, sale anche sul palco di Filadelfia; la reunion controvoglia dei Led Zeppelin; i vari problemi tecnici, soprattutto quello per cui Paul Mc Cartney cantò i primi due minuti di Let it be con un microfono spento, ma fu quasi un incidente benedetto, perché a quel punto la voce di Sir Paul venne sostituita dai 72mila presenti a Wembley, con un effetto di grande emozione. Di certo, una pagina straordinaria nella storia della musica pop; ma per l’Africa, dopo che si sono spenti i riflettori, sono rimaste solo le briciole.