Se il vostro superiore vi è antipatico o non vi piace come lavora attenzione a come lo dite e dove lo dite.  Finchè vi lamentate con il vostro più caro amico o il vostro partner nulla succede ma se vi avventurate sui social o usate le mail allora sono dolori. Anzi: sono guai, e pure seri, perché potete essere licenziati per giusta causa e senza preavviso.

Non è una previsione in punto di diritto ma quanto realmente  successo a un dipendente che gestiva la comunicazione e la pubblicità di un’azienda di telecomunicazioni. Ha parlato male dei suoi superiori in alcune mail e su un post di facebook ed è stato licenziato in tronco. Inutile il ricorso davanti al giudice del lavoro che sia in primo sia in secondo grado gli ha dato torto. La pietra tombale l’ha messa ora la Corte di Cassazione: l’interruzione repentina del rapporto di lavoro era legittima.

Le sentenze di merito sono del 2018 ma i fatti sono accaduti due anni prima. La vicenda è stata riportata nel dettaglio da Alessandro De Lucia su Altalex. In sostanza: il lavoratore licenziato era un account manager dei profili social dell’azienda quando nel 2016 in tre mail e un post sulla sua pagina facebook aveva scritto alcune frasi sui suoi superiori. Ebbene, quel post e quelle mail erano state subito ritenute gravemente offensive e diffamatorie. E così l’azienda aveva avviato la procedura di licenziamento per giusta causa. Il procedimento disciplinare sfociato nella sanzione massima era stato confermato dal giudice di primo grado e poi dalla Corte d’appello.

In questo specifico caso è stato applicato l’articolo 2.119 del Codice civile che consente al datore di lavoro di recedere dal contratto senza preavviso “qualora si verifichi una causa che non consenta la prosecuzione anche provvisoria del rapporto”. Secondo l’azienda si è configurata una grave insubordinazione nella pubblicazione del post e nell’invio delle mail. Questo comportamento è peraltro previsto come causa di licenziamento senza preavviso anche dal contratto collettivo nazionale di lavoro del settore che, alla lettera B punto A dell’articolo 48 prevede “l’idoneità a precludere la proseguibilità del rapporto di lavoro per l’elisione del legame di fiducia fra le parti”. Questo significa che la fiducia sta alla base del contratto di lavoro subordinato. Non solo: in questo specifico caso rileva anche il ruolo del dipendente che gestiva la comunicazione pubblicitaria nazionale e l’immagine dell’azienda.

Perso il ricorso prima in Tribunale poi in Appello, il dipendente si è rivolto alla Cassazione motivando innanzitutto con la mancata valutazione nel processo del contesto lavorativo e dei rapporti interni che lo hanno portato a scrivere quelle mail e quel post. Ma i giudici di legittimità hanno ritenuto inammissibile questo motivo in quanto non era stato evidenziato nel processo di merito dove peraltro era stato considerato alla stregua di una semplice valutazione e non un fatto decisivo.

In secondo luogo nel ricorso il dipendente ha invocato i principi di libertà e segretezza della corrispondenza tutelati dalla Costituzione: secondo la Cassazione però neanche questo motivo può essere accolto dal momento che il post è stato pubblicato su facebook che non è una chat privata  e chiusa ma uno spazio assimilabile a una bacheca. E anche se è visibile soltanto agli amici questo è un elenco comunque modificabile e dunque comporta l’impossibilità di avere un numero di destinatari determinato  o determinabile. A questo punto emerge pure  l’elemento della pluralità indispensabile affinché si concretizzi la diffamazione.

Il terzo motivo di ricorso metteva in dubbio che si fosse trattato di una insubordinazione grave. Secondo i giudici della Suprema Corte la critica via mail e social è andata oltre la soglia della correttezza formale sia sotto il profilo dei modi che dei contenuti, ha violato la dignità della persona umana e ha pure comportato il concreto rischio di arrecare un danno all’organizzazione di un’azienda che pone alla base dell’efficienza l’autorevolezza dei suoi dirigenti, qui minata da toni ingiuriosi e disonoreovli.

Infine, il quarto motivo di ricorso, anche questo respinto: il dipendente ha sostenuto l’insussistenza del danno ma secondo la Cassazione l’accertamento del danno - morale o materiale - è superfluo quando la condotta è qualificata come grave insubordinazione.

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