«Era solo un cane, devi reagire. Al mondo ci sono cose peggiori». Se ci fosse una classifica delle frasi sbagliate da pronunciare davanti a chi soffre perché ha appena detto addio al suo cane, al suo gatto o comunque a un animale domestico con il quale ha condiviso anni della sua vita, questa sarebbe nella top ten.

Chi sta vivendo questo dolore sa bene che esistono le malattie gravi degli "umani", quelle che portano alla morte. Sa che esistono guerre, carestie, terremoti, tragedie di proporzioni enormi che colpiscono l'umanità intera. Eppure questo non rende meno duro quel momento. Non rende quel dolore più tenue. Come ha ben spiegato lo psicologo-psicoterapeuta Pierluigi Gallucci nel suo libro "Il dolore negato. Affrontare il lutto per la morte di un animale domestico", si tratta di un dolore profondo anche se spesso non riconosciuto socialmente, anzi, a volte ridicolizzato e sminuito da chi non lo ha mai affrontato. Un dolore acuito dal fatto che non esiste una sorta di "ritualità codificata" per elaborare il distacco. Eppure, come spiega lo psicologo, numerosi studi dimostrano che la sofferenza per la morte del proprio animale domestico è molto simile a quella che si prova quando si perde una persona cara. Una sofferenza per la quale è assolutamente normale e legittimo sentirsi afflitti al punto che, se è necessario, nulla vieta di chiedere aiuto per elaborare il lutto.

Gallucci si occupa, tra i vari temi proprio dell'elaborazione del lutto e nel libro parte proprio dalla storia di una sua paziente che provava un enorme disagio anche soltanto a dire ai suoi amici di dover andare dallo psicologo perché non riusciva da sola ad affrontare il dolore per la morte del suo gatto. Si sentiva una stupida e si vergognava. Aveva dovuto affrontare un percorso per capire che il suo stato d'animo era invece assolutamente normale. Quel lutto era semplicemente da elaborare così come va elaborato il concetto di morte che la società attuale tende a cancellare, nascondere, perché «la morte, ogni morte - scrive Gallucci - ci fa paura (a tutti noi, nessuno escluso) essenzialmente perché ci riconduce alla nostra intima natura, ricordandoci che siamo esseri viventi fragili, esseri mortali appunto». Se in passato la morte veniva celebrata come fase inevitabile della vita e il lutto veniva vissuto dall'intera comunità come un momento di condivisione, oggi quasi non se ne può parlare, come se il pensiero, non parlandone, si potesse rimuovere. «L'occultamento della morte che viviamo almeno nella società occidentale - aggiunge lo psicologo - nasconde in realtà la nostra grande paura e rende evidente l'impreparazione culturale (ma direi anche psicologica e emotiva) di chi si ritrova incapace di realizzare il senso della finitezza umana, l'idea che ciascuno di noi è destinato a morire». Affrontare la morte significa fare un viaggio dentro se stessi, realizzare che è scomparsa una parte di noi «quella consistente parte della nostra vita che esisteva insieme a qualcosa o qualcuno che abbiamo perduto. Dunque la morte uccide simbolicamente anche tutto ciò che ci legava a quell'affetto: è la nostra morte attraverso la morte dell'Altro. Ecco perché non si potrà mai essere come prima». Si sperimenta questa sensazione ad ogni perdita, ad ogni distacco, «un distacco non solo dalle persone ma anche dagli oggetti, dagli amori, dai luoghi, da aspetti di noi stessi. E anche dagli animali amati».

La foto di un cucciolo
La foto di un cucciolo
La foto di un cucciolo

Banalizzare la morte, solo perché si tratta della perdita di un animale e non di una persona non ci aiuterà a superare prima il momento. Nei paesi anglosassoni, ricorda Gallucci, esiste addirittura un termine per definire lo stato d’animo di chi ha visto morire il proprio animale domestico: si dice “pet loss”. «Il legame di attaccamento che unisce l’uomo e l’animale domestico è molto profondo e rappresenta a tutti gli effetti un vero e proprio scambio affettivo caratterizzato da biunivocità e reciprocità. – sottolinea l’esperto –  E’ ormai ampiamente dimostrato, infatti, che gli animali, soprattutto i mammiferi, hanno un cervello “emotivo” simile al nostro, che permette loro di attivare risposte cognitive ed emotive complesse».

Chi ha o ha avuto un gatto o un cane sa che il rapporto che si crea è un rapporto unico. Come ben spiega lo psicologo, «si tratta quasi sempre di rapporti intensi e appaganti: gli animali non giudicano, ci accettano come siamo in modo incondizionato. Quando muore si deve dire addio a una parte di noi». Per anni è stato come un amico, un compagno, un figlio e inevitabilmente, visto che la vita media di un animale è molto più breve di quella di un essere umano, si dovrà fare i conti con il momento della sua morte. Anzi, in molti casi purtroppo, si dovrà decidere sul momento della sua morte a causa di malattie che rendono la qualità della sua vita impossibile da sopportare.

L'esperto spiega che al momento dell'addio si proverà prima di tutto uno stato di shock, una sorta di stordimento emotivo che renderà difficile riprendere le proprie attività quotidiane. Possono esserci sintomi fisici, come il pianto, l'insonnia, il mal di testa, il senso di costrizione al petto. La reazione sarà più o meno lunga anche in base alla modalità in cuoi è avvenuto il decesso dell'animale. Si potranno, dice Gallucci, sperimentare rimorsi o sensi di colpa, quella di sensazione di non aver fatto abbastanza per salvarlo. «Iniziano a affiorare vissuti di rimpianto che si alternano a momenti di grande afflizione. Possono comparire anche ansie persecutorie e risentimenti...è il tempo della tristezza, della pena e del pianto che si cerca di soffocare per la paura di essere giudicati troppo deboli dagli altri. Ed è anche il tempo della rabbia, verso l'animale, verso gli altri o se stessi».

Occorre trovare una via d'uscita per lasciarlo andare e ricominciare a vivere. Ma questo non significa cancellare la sua immagine e dimenticarlo.

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Ecco quindi i consigli dello psicologo.

«Non nascondere il dolore»: è sbagliato farlo con gli altri e con se stessi: <Il lutto va lasciato decantare, i tentativi di schivarlo hanno l'effetto di mantenerlo vivo.

Bisogna «cercare di tenere il passo»: si deve al più presto riprendere la routine delle attività quotidiane: studio, lavoro e tempo libero.

Occorre <prendersi cura degli effetti personali del proprio animale>: si possono riporre in una scatola, metterli da parte e, quando si sarà pronti, si potrebbe magari decidere di donarli a un'associazione che cura gli animali randagi.

Serve «concedersi tempo e permesso di esprimersi»: mai sentirsi inadeguati se si ha voglia di parlare del proprio animale, piangere per sfogarsi, sentirsi arrabbiati o tristi. Ogni sensazione è legittima

Si deve «chiedere comprensione e rispetto»: poter parlare con gli altri è importante, anche con chi ci dice "era solo un cane". Queste sono persone alle quali si può cercare di far capire perché il nostro animale domestico era così importante per noi.

Parlarne ai bambini: occorre trovare il modo per far capire ai bimbi che cosa sia successo, senza nascondergli la verità, essendo onesti sul proprio dolore in modo che non si sentano in dovere di nascondere ciò che provano.

Commemorare l'animale: si può creare un album con le foto dell'amico a quattro zampe che non c'è più, aiutare a suo nome un'associazione di volontariato, piantare un albero sopra le sue ceneri se si è deciso per la cremazione. «Si può aver bisogno di un luogo fisico dove andare a trovarlo simbolicamente così come si fa con le persone defunte. Creare un rito rende la perdita reale...Creare un rito può essere un modo per segnare il momento di passaggio con cui ci congediamo, lasciamo andare il nostro animale e lo ringraziamo per aver condiviso la sua vita con noi».

Pierluigi Gallucci è convinto che non si debba subito adottare un nuovo animale: «Può essere accolto quando si è pronti ad andare avanti e costruire una nuova relazione, invece che guardare indietro a quello che abbiamo perduto».

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