Angelina Jolie forse non era l’attrice più adatta e capace per dare corpo e spirito alla Callas. Tuttavia, quale grande interprete riuscirebbe a riportare in vita sullo schermo la solitudine di una Diva tanto venerata e il disagio di una donna che si vedeva grassa anche in una taglia 40? Al di là della qualità del film di Pablo Larrain, “Maria”, presentato alla Mostra del cinema di Venezia, è interessante il racconto degli ultimi giorni di vita del soprano più celebre al mondo, spentasi a 53 anni il 16 settembre 1977 nella sua casa di Parigi.

Il declino era cominciato tanto tempo prima. «Non conosco affetto, stima per me: sono infinitamente sola», scriveva Maria Callas nel suo diario a metà anni Settanta. Con strani accenni: «Penso che per me la fine della vita sia una gioia; non ho felicità, né amici: soltanto droga».

Sul referto di morte stava scritto: infarto. Ma lei, Maria, lasciò un piccolo biglietto azzurro, indirizzato a Titta (vezzeggiativo con cui usava chiamare l’ex marito Gian Battista Meneghini), e datato estate ‘77. «In questo finimondo tu sol mi resti. E il cor mi tenti. L’ultima voce del mio destino, ultima croce del mio cammino». Sono i versi della Gioconda di Ponchielli che la protagonista canta al terzo atto. Maria Callas li prese in prestito, tralasciando il primo verso, quello di una sola parola: suicidio.

Una vita straordinaria, la sua. Una vita iniziata davvero quando, nel 1950, il maestro Arturo Toscanini, allora 83enne, la sentì cantare. L’aveva convocata, per la verità senza grandi speranze, nella sua casa di Milano perché gli era stata raccomandata. Lui da tempo cercava una cantante capace di interpretare Lady Macbeth. «Non vorrei morire - ripeteva - senza aver diretto il Macbeth di Verdi ». Non c’era quest’opera nel libro della sua mitica carriera per un motivo molto semplice: non aveva trovato l’interprete giusta. Doveva essere «una donna brutta e cattiva, dalla voce aspra soffocata e cupa», la sua eroina, «Verdi stesso la voleva così». Sicché il maestro - che aveva in progetto quell’anno, una grande commemorazione di Giuseppe Verdi, a cinquant’anni dalla morte – s’era disposto ad ascoltare l’ennesima candidata. Cominciò dunque a suonare al piano. La signora accanto a lui cantava, proprio con quella «voce aspra soffocata e cupa», per quasi tutto il primo atto. Di colpo Toscanini smise di suonare: «Signora - disse - lei è la donna che ho cercato per tanto tempo. Farò, finalmente, il Macbeth con lei». Era Maria Callas l’unica Lady Macbeth per Toscanini; e fu Maria Callas la Norma, la Euridice, la Turandot, la Isotta, la Medea, la Cio-Cio-San, l’Elvira, la Violetta, la Brunilde più grande e meravigliosa nella storia della lirica. Lei col suo destino da cenerentola a regina, con una storia artistica conosciuta in tutto il mondo e una storia umana di cui nessuno ha mai saputo veramente. Almeno fino alla morte.

Centinaia le lettere - inviate ai pochissimi amici veri, ma soprattutto al marito Giovan Battista Meneghini - che dicono di una donna passionale, tenera, generosa, malinconica. E di un’artista ambiziosa, instancabile, puntigliosa e perfezionista. «L’unica mia arma - scriveva - è essere sempre preparata, perché contro la bravura non c’è perfezione che tenga». Fin da bambina - era nata a New York nel 1923 da genitori greci immigrati - dimostrò il suo talento per la musica e il canto, ma la madre aveva attenzioni soltanto per l’altra figlia, Jackie.

Del resto Maria venne al mondo come indesiderata, colpevole soltanto di non essere nata maschio. Si sentiva un’intrusa, come se avesse guastato la felicità della madre (uno stato d’animo che l'accompagnò per tutta la vita) e, per farsi perdonare, studiava e si esercitava con impegno. «Mi sentivo amata solo quando cantavo», raccontava. La stessa passione l’aveva dimostrata, quando, ragazzina in Grecia - dove la madre era rientrata con le figlie dopo essersi separata dal marito - divenne l’allieva prediletta della grande Elvira de Hidalgo. «Non mi fece una buona impressione», rivelò anni dopo la maestra. «Una ragazza alta, grassa, goffa e col viso pieno di foruncoli. Accettai di ascoltarla. Nel momento in cui iniziò a cantare rimasi di pietra. La voce era grezza ma potente, con un timbro inimitabile».

Dello stesso parere anche il maestro Tullio Serafin che la diresse ne La Gioconda di Ponchielli alla data del suo debutto ufficiale nel mondo della lirica - 2 agosto 1947 all’Arena di Verona - e poi le affidò la parte della protagonista nel Tristano e Isotta di Wagner: quella che segnò, nel dicembre, alla Fenice di Venezia, il suo vero primo trionfo. Sotto la guida del maestro Serafin, e di Tullio Siciliani, direttore artistico del Comunale di Firenze, la Callas perfezionò la sua vertiginosa tecnica vocale e quel suo incomparabile stile che rese possibile persino la resurrezione di repertori abbandonati da un secolo - come l’Armida di Rossini - per mancanza di interpreti con la vocalità adatta.

Cantava nei più grandi teatri italiani e stranieri, incarnando tragiche eroine come mai nessuna aveva fatto. Aveva però un cruccio: mai aveva cantato alla Scala. Come una regina s’intende, che già nel 1950 vi recitò una parte nell’Aida, chiamata per sostituire la primadonna indisposta Renata Tebaldi. E chissà, se non fosse stato per Toscanini che espresse a Ghiringhelli (il sovrintendente che riservava a Maria uno spietato ostracismo) il desiderio di sentire la Callas alla Scala, forse mai avrebbe potuto calcare le scene del teatro milanese. Erano quelli i tempi di intoccabili primedonne quali la Tebaldi, la Schwarzkopf, la Simionato, la Barbieri, la Carosio; e lei, Maria Callas, con la stagione lirica ‘51-’52 inaugurò il suo regno nel più grande teatro del mondo cantando nei Vespri Siciliani, e poi in Norma, Il Ratto del Serraglio, e in Don Carlo.

Un trionfo. Di pubblico e di critica, pure di quella che l’aveva sempre osteggiata.Vi regnò, alla Scala, ammirata sopportata e detestata, lei che imponeva a sovrintendenti, direttori d’orchestra e registi le sue decisioni e i suoi voleri, come nessun altro poteva permettersi di fare. Vi regnò per sette anni, cantando - tra l’altro - lo storico Macbeth all’inaugurazione della stagione ‘52-’53, diretto da Victor De Sabata, la superlativa Medea della stagione successiva, e la Traviata più contestata e più leggendaria della storia, diretta nel ‘55 da Carlo Maria Giulini, per la regia di Luchino Visconti.

Fu questa l’opera che diede una piega mondanissima al mito di Maria Callas: lei, la diva dei teatri di tutto il mondo, fu ancor più amata, desiderata, adorata dal suo pubblico. E dai sarti, giornalisti, fotografi, registi e nomi del jet set che ben presto l’attorniarono. L’amore per il marito - l’industriale veronese che sposò nel 1949 - era sempre più forte e con questo cresceva il desidero di un figlio che tuttavia non arrivò mai. Intanto, nel ‘53, da «grassa e bruttissima» come la ricordava Zeffirelli, divenne una donna bellissima, elegante, esile: inspiegabilmente, nel giro di pochi giorni, aveva perso ben trenta chili.

«Era diventata un cigno», raccontava Biki, la stilista che la vestiva. Il suo cachet era di diecimila dollari a concerto: è stata la cantante più pagata della storia della lirica. Nel ‘56 Maria Callas conquistò il Metropolitan di New York, il teatro dove trionfava la Tebaldi. Quella Tebaldi che nel ‘54 fu costretta a lasciare la Scala perché, dichiarò più tardi in un’intervista, «dopo l’arrivo della Callas per me non c’era più posto». Storica la loro rivalità, preceduta da un’amicizia che si era rinsaldata anni più tardi. Cominciò quando la Tebaldi s’impuntò per sostituire la collega nelle ultime recite di una Tosca in Brasile: Maria Callas rispose oscurandone la stella alla Scala con una sua prima grande stagione e poi con una Medea.

Un regno che durò dal gennaio del ‘58 alla prima di Norma nel Teatro dell’Opera di Roma, presente il presidente della Repubblica Gronchi. L’anno successivo lasciò il marito, e le scene, per Aristotele Onassis, il grande amore. L’attendevano giorni di umiliazioni e insulti (il greco sposerà Jackie Kennedy nel ‘68). Di dolore e solitudine. Di piccole risurrezioni (nella Medea di Pasolini) e disperati amori, per Pasolini stesso e per il tenore Giuseppe Di Stefano che riuscirà a farla cantare ancora. Poi il declino, quello senza ritorno.

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