Agli studenti del liceo classico viene insegnato ad amare Marco Tullio Cicerone. Quello che, però, non viene detto agli studenti isolani è che l’oratore, politico, scrittore e filosofo romano detestava i sardi. “Qua re cum integri nihil fuerit in hac gente piena, quam ualde eam putamus tot transfusionibus coacuisse?” (“E allora, dal momento che nulla di puro c’è stato in questa gente nemmeno all’origine, quanto dobbiamo pensare che sia corrotta da così tante ibridazioni?”). E, giusto per metterci il carico da novanta, afferma: “Fallacissimum genus esse Phoenicum omnia monumenta vetustatis atque omnes historiae nobis prodiderunt. Ab his orti Poeni multis Carthaginiensium rebellionibus, multis violatis fractisque foederibus nihil se degenerasse docuerunt. A Poenis admixto Afrorum genere Sardi, non deducti in Sardiniam atque ibi constituti, sed amandati et repudiati coloni” (“La razza più ingannatrice, come ci attestano tutti i documenti dell’antichità e tutte le opere storiche, è quella dei Fenici. I Punici, loro discendenti, non si sono mostrati, se pensiamo alle molte ribellioni di Cartagine, alle numerose violazioni e rotture di patti, figli degeneri. I Sardi, che discendono dai Punici grazie a un incrocio di sangue africano, non sono stati condotti in Sardegna come normali coloni ivi stanziati, ma come il rifiuto di coloni di cui ci si sbarazza”).

Frasi che fanno parte di una delle orazioni che lo stesso Cicerone apprezza maggiormente: la “Pro Scauro” con la quale l’avvocato aveva preso le difese di Marco Emilio Scauro, figliastro di Silla, governatore dell’Isola (e della Corsica), accusato di tre “crimen”: aver avvelenato, durante un banchetto, Bostare, ricco cittadino di Nora; aver insidiato la moglie di un certo Arine, al punto di uccidersi piuttosto che diventare la sua amante; e, soprattutto - accusa più grave di tutte -  aver imposto una decima supplementare a suo esclusivo beneficio che si aggiungeva alla decima normale e a quella straordinaria, considerate entrambe legali.

Accuse molto gravi e, probabilmente, veritiere. Solo che l’avvocato scelto dai sardi, l’oratore Publio Valerio Triario commise l’errore di non andare per trenta giorni in Sardegna alla ricerca di prove (nonostante questo gli fosse stato suggerito e autorizzato dal presidente del tribunale): era convinto che, a provare le sue affermazioni, sarebbero bastate le testimonianze dei centoventi sardi che si erano recati a Roma per sostenere l’accusa. Sardi che, però, furono subito insultati da Cicerone: “Sono venuti dalla Sardegna”, disse, “convinti di intimorire e persuadere con il loro numero ma non sanno neppure parlare la lingua latina e sono vestiti di pelli”. Non solo: li definì ladroni con la mastruca, inaffidabili e disonesti, “la cui vanità è così grande da indurli a credere che la libertà si distingua dalla servitù solo per la possibilità di mentire”.

Per Cicerone fu semplice smontare le prime due accuse: sostenne che Scauro non aveva alcun interesse ad avvelenare Bostare perché non era il suo erede. E, poi, aggiunse che non aveva alcun motivo di odiare Bostare che, secondo l’oratore, sarebbe stato ucciso dalla madre.

Per difenderlo dall’accusa di aver insidiato la moglie di Arine Cicerone fece ricorso al suo bagaglio razzista antisardo: definì la donna brutta e vecchia, non in grado dunque di sedurre Scauro. E aggiunse che tutte le donne sarde non erano assolutamente in grado di indurre attrazione in un cittadino romano.

L’accusa di malversazione? Facendo ricorso alla sua ars oratoria, cantò le lodi di Scauro, uomo capace di ridare ossigeno a una famiglia che viveva un periodo di difficoltà. Come può, chiese retoricamente, un uomo di così specchiata onestà, essersi comportato in maniera disonesta?

Il processo non poteva, dunque, che concludersi con l’assoluzione di Scauro con 62 voti a favore e 8 contrari. A determinare l’esito del processo non fu, però, l’orazione di Cicerone (che, pure, l’avvocato considera una delle sue più belle) quanto il fatto che Scauro, protetto da Pompeo, ebbe gioco facile nel corrompere i giudici.

Una beffa, forse la prima di tantissime altre, per i sardi. Ma, se non altro, il successo in quel processo servì a poco all’uomo politico romano. Durante la campagna elettorale per la candidatura al consolato, il suo vecchio accusatore, Publio Valerio Triario, lo additò come corruttore. Un’accusa che sancì la fine della carriera politica di Scauro, costretto a lasciare Roma.

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