C’è un elefante nella stanza, anzi un dragone. A sfogliare i giornali del marzo 2019 e poi a scorrere i lanci di agenzia di questi giorni, cioè quelli che annunciarono il memorandum d’intesa fra l’Italia di Giuseppe Conte e la Cina di Xi e questi che invece notificano il passo indietro dell’Italia di Giorgia Meloni (la Cina è ancora di Xi, e sempre di più), a colpire non sono solo i fatti in sé, cioè la fuga in avanti solitaria di Roma sulla Via della Seta e poi la sua retromarcia, ma soprattutto la differenza di enfasi nel sottolinearli. Protocollare, ma anche politica.

L’incontro Pechino-Roma fu salutato con un cerimoniale da evento storico e decorato da un notevole screzio fra Lega e M5S, all’epoca alleati di governo, che coinvolse i calibri maggiori, Salvini da una parte e Di Maio dall’altra. L’addio di Roma a Pechino invece fila via in sordina: un necrologio scandito dalla premier davanti agli industriali (l’intesa «non ha dato i risultati attesi») e un flebile crepitio di dichiarazioni affidato quasi solo a seconde file dei partiti, che sbertucciano l’intesa siglata quasi cinque anni fa dall’Avvocato del Popolo oppure lo difendono, a seconda degli schieramenti.

Di certo rispetto al salario minimo, alla separazione delle carriere dei magistrati o al pur lontano e ancora indistinto premierato all’italiana, il memorandum evaporato non appare un tema notevole nell’agenda della nostra politica. Eppure a vederlo da Pechino – che si dispiace molto ma tiene toni bassi, per salvare almeno i residui di quell’alleanza commerciale – e anche da Washington e Bruxelles, è il fatto strategicamente più significativo fra i tanti che l’attualità italiana produce.

Quel 21 marzo, vigilia dell’intesa su molti e intensissimi progetti infrastrutturali e commerciali, fu ben diversamente celebrato. Raccontava Paolo Salom sul Corriere della Sera che l’arrivo a Roma di Xi Jinping fu maestoso. Accolto all’aeroporto dal ministro leghista all’Agricoltura Centinaio, il leader cinese fu scortato al Quirinale da una schiera di corazzieri a cavallo, trattamento degno di un pontefice o di un regnante. Poi sul Colle la cena di gala (per 165 convitati, mentre erano mille gli addetti alla sicurezza) a base di tortelli di magro, vitello tartufato e babà. Gran finale garantito dal concerto di Bocelli, con Xi che intravede fra gli invitati il ct della Cina Marcello Lippi e strappa il protocollo (il presidente cinese tendenzialmente non tocca altri mortali se non per esigenze protocollari) per andargli a stringere la mano.

Quarantott’ore più tardi ecco un doposbornia altrettanto solenne, con Merkel e Macron che strigliano Conte per l’accordo che porta l’Italia – unico Paese del G7 – un passo di troppo dentro l’orbita di influenza della Cina. E Conte che si affanna a spiegare, a loro e agli italiani, che il memorandum non è vincolante, ma intanto addirittura il segretario di Stato Usa, Mike Pompeo, non va per il sottile e sui proclama «deluso» da Roma. E intanto l’alleato-ma-non-troppo Salvini, defilato fuori Roma nei giorni del ricevimento di Xi, che attacca la Cina, dove certo non vige «il libero mercato» e che di sicuro non è una democrazia, perciò bisogna essere «assolutamente cauti sulla sicurezza nazionale». E Di Maio, l’altro vicepremier, che gli replica: «Lui è libero di parlare, io devo fare i fatti», cioè accordi appena firmati per 2,5 miliardi.

Oggi il governo si è sfilato da quel memorandum, e non senza difficoltà e imbarazzi. Tajani, in visita in Cina, si era mostrato molto freddo sull’idea di un rinnovo, ma aveva diplomaticamente rinviato la decisione a un voto parlamentare che in realtà non c’è stato. Ma quando il governo ha deciso di sfilarsi dall’accordo, con una nota ufficiale pretesa dalla Cina che non si accontentava di una disdetta tacita, non c’è stato neanche un particolare dibattito politico. Fratelli d’Italia, che era all’opposizione quando il memorandum fu firmato, adesso governa e non ha interesse a irritare ulteriormente il gigante asiatico suonando le fanfare per il divorzio. Lo stesso vale per molti versi per Forza Italia, dove a parte Gasparri (che si compiace dell’addio) i big tendono a tacere. La Lega per certi versi potrebbe concedersi un «noi lo dicevamo», ma all’epoca della firma era al governo. Il M5S potrebbe difendere l’accordo, visto che governava quando fu realizzato ed è all’opposizione ora che viene stracciato, e in effetti lo difende con Conte che parla di «autogol» di Meloni, ma con meno grinta di quanto ci si potrebbe aspettare. Anche perché nel frattempo la Cina è diventata l’alleata «senza limiti» dell’impresentabile Russia, oltre che il Paese che continua a opporre una cappa impenetrabile e imbarazzata alle indagini sulle origini del Covid, e non è più il partner che valeva la pena di sposare commercialmente a costo di irritare il resto d’Europa e l’America. Quanto al Pd, all’opposizione tanto all’epoca quanto oggi, con ogni probabilità ha altro per la testa. E comunque le premesse per l’accordo futono poste dal governo Gentiloni.

Certo, per FdI c’è Rampelli che si rallegra per l’uscita dalla Via della Seta e per il M5S c’è Fico che se ne dispiace («serviva più tempo»), ma l’unico o quasi che usa toni accesi è il battitore libero della destra più destra, Gianni Alemanno («Una follia») mentre Faraone di Italia Viva sembra più interessato a usare l’uscita dall’accordo per far scoppiare qualche contraddizione dentro la maggioranza («che ne pensa la Lega?»). Nel complesso l’ombra cinese che questo addio lascia sullo schermo della politica italiana è molto più piccola e marginale della sagoma che il progetto proiettò nel 2019.

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