«Mia mamma mi ha detto che l’istruzione mi dava una voce, ma io non voglio una voce come le altre. Io voglio una voce forte, una voce che la sentono tutti. Voglio che entro in un posto e le persone mi sentono, anche prima che ho aperto la bocca». Questa è la voce di Adunni, adolescente nigeriana con il sogno di diventare maestra e la caparbietà necessaria per sfuggire a un destino già segnato. Lei, che si esprime in broken english, inglese sgrammaticato e colmo di termini dialettali, è la protagonista dello splendido romanzo di Abi Daré, scrittrice di origine nigeriana che racconta la storia della ragazzina rimasta orfana della mamma, data in moglie a un vecchio in cambio di denaro, finita poi a fare la serva in casa di Big Madam, un’imprenditrice ricchissima e crudele che la tratta come una schiava. Saranno i libri a salvare Adunni. I libri che troverà nella stanza chiamata biblioteca, presto eletta a rifugio nelle lunghe giornate di fatica. Così, con un dizionario di inglese e l’edizione 2014 del libro dei fatti della Nigeria, giorno dopo giorno, pagina dopo pagina, imparerà parole nuove, conoscerà la storia e la geografia del suo Paese, inizierà a pensare, a riflettere, ad aprirsi al mondo e al futuro.

Adunni si salverà ma in Nigeria sono tante le ragazzine che non hanno avuto, né hanno, uguale fortuna. Nel Paese più ricco e popoloso (190 milioni di abitanti) dell’Africa quasi cento milioni di persone vivono sotto la soglia di povertà, tra fame, analfabetismo e discriminazione. Una condizione che pesa soprattutto sulle bambine delle aree rurali, carne per matrimoni combinati e per lavori di fatica nelle ville dei padroni. È l’infanzia negata in Africa, in Afghanistan, in India e in tanti altri Paesi del mondo dove ancora oggi la scuola è un lusso riservato ai figli dei ricchi, e dove le bambine sono ancora più discriminate dei maschi.

Un mondo che oggi a noi pare lontano, eppure in Sardegna (come nelle aree più povere del resto d’Italia) era la condizione di tante bambine fino a qualche decennio fa. A Fonni, per esempio, sino alla fine degli anni Cinquanta era usuale mandare le bambine «a s’aggiudu» (ad aiutare) nelle abitazioni dei benestanti del paese ma anche presso le famiglie meno ricche dove la padrona non aveva figli o semplicemente non era in salute. La maggior parte finivano per essere ritirate dalla scuola e le più fortunate facevano appena in tempo a imparare a leggere e a scrivere. «lasquola è bela», «lamama e brava»: a scrivere così, s’intende.

Lo racconta Maria Giacobbe in “Diario di una maestrina”, il suo libro d’esordio pubblicato da Laterza nel 1957. Un romanzo verità, un crudo reportage dalla pancia dei paesi del Nuorese - tra questi Oliena, Orgosolo, Fonni - segnati da fame e povertà. A Fonni le era stata assegnata una terza femminile, e «su quarantatré iscritte - scrive - non ne ho mai presenti a scuola più di trenta». L’obbligo scolastico era tenuto in conto dalle famiglie solo per paura della multa e dei carabinieri, ma nella pratica l’imposizione era ampiamente elusa. «Siamo troppo poveri», le disse una volta una mamma.

Le alunne hanno tra i 9 e i 14 anni e sono perlopiù ripetenti, adolescenti stanche dallo sguardo adulto, il cui impegno è evidentemente fuori dalla scuola. «Chi o che cosa le trattiene fuori? Perché non studiano le lezioni o le studiano male? Perché arrivano in ritardo e molto spesso mi chiedono di uscire prima dell’ora fissata? L’“aggiudu”. L’“aggiudu” con la mancanza di libri e di quaderni, con la fame e il freddo è il mio più potente antagonista. Ventuno delle mie alunne vanno all’“aggiudu” e alcune ne fanno tre o quattro in un giorno».

Glielo raccontano le bambine con la semplicità dei piccoli che vivono la propria condizione come un destino ineludibile. Le più fortunate lavorano per due padrone, le altre faticano ancora di più. «Faccio la provvista dell’acqua, quattro o cinque brocche al giorno per famiglia», è la confidenza di una delle alunne più piccole. «Poi faccio la pulizia ai maiali, scopo il cortile e vado al mondezzaio per gettar via la spazzatura». Non sempre c’è una paga, anzi quasi mai. Per una famiglia numerosa con sei, sette, otto e più figli, era già tanto avere la possibilità di sfamarne uno in meno. «Mi danno da mangiare, e qualche volta mi regalano dei vestiti smessi. Certi giorni mi danno da mangiare anche la minestra con la carne».

La maestra Maria non riuscirà a salvare le sue bambine da un destino segnato, lo stesso destino delle loro madri e delle loro nonne. Le aiuterà però a scoprire la bellezza di imparare parole nuove, spronandole a comporre un piccolo vocabolario fonnese-italiano. Parole nuove che, sempre, hanno il potere magico di nutrire i pensieri, scardinare le paure, sostenere i sogni.

In Sardegna a quel tempo l’italiano era una lingua straniera, eppure le piccole alunne imparano, cominciano a prendere buoni voti nel componimento scritto e nel calcolo, affinano il senso di osservazione. Grazie al potere delle parole nuove non erano più le bambine che scrivevano «lasquola è bela» e «lamama e brava».

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