Il giornalismo d’inchiesta ha un alto valore sociale. Dunque, in materia di diffamazione, va valutato diversamente rispetto al “normale” giornalismo di informazione, sempre che siano rispettati due limiti deontologici: lealtà e buona fede.

Così si è di recente espressa la Corte di Cassazione chiamata a decidere sul ricorso presentato da un importante gruppo editoriale italiano e alcuni suoi giornalisti, condannati in appello. E così ha riportato il Sole 24 Ore, sottolineando che la Suprema Corte ha ribaltato quel verdetto.

Il motivo c’è e viene esplicitato: bisogna tenere conto del ruolo civile e dell’utilità democratica del giornalismo d’inchiesta, anche se non dovesse arrivare alla verità. Quindi, per valutare se un articolo è diffamatorio bisogna guardare non tanto alla attendibilità e alla veridicità della notizia quanto al rispetto della deontologia da parte dell’autore dell’articolo.

“L’attenuazione del canone di verità”, scrive la Cassazione, “si giustifica alla luce del principio costituzionale in materia di diritto alla libera manifestazione del pensiero, quando detto giornalismo indichi motivatamente un sospetto di illeciti con il suggerimento di una direzione di indagine agli organi inquirenti o una denuncia di situazione oscure che richiedono interventi amministrativi o normativi per poter essere chiarite, sempre che riguardino temi sociali di interesse generale, alla condizione che il sospetto o la denuncia siano esternati sulla base di elementi obiettivi e rilevanti: infatti nel giornalismo d’inchiesta il sospetto deve mantenere il proprio carattere propulsivo e induttivo di approfondimento, essendo autonomo e, di per sé, ontologicamente distinto dalla nozione di attribuzione di un fatto non vero”.

A questo proposito Francesco Machina Grifeo scrive sul Sole 24 Ore che questo verdetto supera parzialmente anche i tre caposaldi fissati dalla Cassazione nel 1984 in materia di libertà di stampa: tre erano i tre presupposti per parlare di legittimo esercizio del diritto di cronaca, la verità delle notizie, la pertinenza e la continenza espressiva.

Ora invece la Corte di Cassazione offre una diversa applicazione del requisito dell’attendibilità della fonte: fermi restando i limiti dell’interesse pubblico alla notizia e del linguaggio continente, ispirato cioè a una correttezza formale dell’esposizione, è da valutare non tanto l’attendibilità e la veridicità della notizia, che il giornalista investigativo ha direttamente acquisito, quanto il rispetto dei doveri deontologici di lealtà e buona fede oltre che la maggior accuratezza possibile nella ricerca delle fonti e della loro attendibilità.

In questo modo la Cassazione indica gli elementi in base ai quali si può definire il giornalismo d’inchiesta, diversamente da quanto rilevato dal giudice di merito, secondo il quale sostanzialmente ci si trova in questo campo solo quando il giornalista ricerca e utilizza documenti inediti o testimonianze di persone o assista di persona a conversazioni o corrispondenza. La lettura della Cassazione è decisamente più ampia: è giornalismo d’inchiesta quello in cui il giornalista operi una valutazione complessiva e autonoma anche di circostanze note e di pubblico dominio sottoposte a sua valutazione e critica, purché l’inchiesta si concentri su fatti di rilievo pubblico.

E allora, d’ora in avanti occorrerà tener conto del principio di diritto appena affermato: in materia di diffamazione a mezzo stampa il giornalismo d’inchiesta ricorre quando l’autore non si limita alla divulgazione della notizia (come nel giornalismo ordinario di informazione) ma provvede egli stesso alla raccolta autonoma e diretta della notizia, tratta da fonti riservate e non, anche documentali e ufficiali, con un lavoro personale di organizzazione, collegamento e valutazione critica, al fine di informare i cittadini su tematiche di interesse pubblico. Il suo ruolo civile e di utilità alla vita democratica di una collettività implica la necessità di valutarne gli esiti, non tanto alla luce dell’attendibilità e della veridicità della notizia, quanto all’avvenuto rispetto da parte dell’autore di doveri deontologici di lealtà e buona fede.

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